3 settembre 1982: il sacrificio del generale dalla Chiesa
di Menandro|
|Il 30 aprile del 1982, quando il generale Carlo Alberto dalla Chiesa si insediò nella prefettura di Palermo, fresco di nomina, Cosa Nostra gli “andò incontro” con un chiaro biglietto da visita: al mattino di quello stesso giorno, alcuni sicari avevano freddato Pio La Torre, il deputato e segretario regionale siciliano del Pci, e Rosario Di Salvo, il militante di partito che gli faceva da scorta. La Torre, nato a Palermo 55 anni prima, era già stato segretario regionale venti anni prima, ma nella sua terra aveva scelto di ritornare per dare un forte messaggio politico, dopo essere stato il primo firmatario della legge che portava il suo nome e quello dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Una legge che per la prima volta nella storia della Repubblica prevedeva il reato di “associazione di tipo mafioso” e la confisca dei patrimonio di provenienza illecita.
Anche per il generale dei carabinieri dalla Chiesa era un ritorno in Sicilia. Aveva conosciuto l’isola nel 1949, durante il periodo di repressione del banditismo, della banda Giuliano, delle collusioni tra mafiosi nostrani e italoamericani, separatisti siciliani, servizi segreti americani e indigeni; una vischiosità maleodorante che a parole combatteva il crimine sulle pagine dei giornali, ma che a fine corsa era interessata ad usarlo alla conservazione delle prepotenze dei feudi e a negare le rivendicazioni di giustizia e la fame di terra dei contadini. Lo Stretto di Messina l’avrebbe riattraversato nella seconda metà degli anni Sessanta con il grado di colonnello, comandante della “Legioni carabinieri Sicilia”. Anni caratterizzati da una forte impronta “pedagogica” che diedero a dalla Chiesa l’opportunità di guardare da vicino la nuova mafia che si era spogliata dei suoi tratti rurali per abbracciare la “modernità”, il business, specchio demoniaco di un Paese folgorato dal boom economico. Era la mafia che allungava i suoi tentacoli in lucrosi affari sul territorio, che intesseva rapporti con la finanza e il sistema bancario, che misurava il suo potere di coercizione sull’imprenditoria. Era la mafia dei Liggio, Badalamenti, Bontate, Alberti, Calderone, padroni di Palermo e dintorni che a braccetto con il loro plenipotenziario e sindaco della città Vito Ciancimino provvedeva a soffocare la libertà e i diritti dei palermitani e dei siciliani. I corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano erano ancora sullo sfondo, ma lo sarebbero rimasti per poco. Dal porto delle nebbie sarebbero presto emersi prepotenti e vincenti per decidere il destino di dalla Chiesa e dopo di lui di altri eroi caduti nella lotta alla mafia.
Quel 30 aprile del 1982, con corpi di Pio La Torre e Rosario di Salvo ancora caldi, il prefetto antimafia Carlo Alberto dalla Chiesa, il generale dei carabinieri che con intelligenza ed acume aveva battuto il terrorismo, comprese immediatamente che lo scontro con Cosa Nostra sarebbe stato radicale. E il film da quel momento avrebbe avuto soltanto fotogrammi in bianco e nero, con un unico colore ammesso, il rosso sangue. Sarebbe stato il suo.
“La mafia è cauta, lenta ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana”, avrebbe detto il generale-prefetto al giornalista Giorgio Bocca in un’intervista pubblicata su la Repubblica il 10 agosto e diventata una sorta di suo testamento politico nel reclamare, attraverso i “poteri speciali” che gli erano stati promessi, la presenza dello Stato perché “l’arroganza mafiosa deve cessare”. Un’arroganza che dall’inizio di quel mese si era sostanziata in otto morti e un sequestrato. Fu un’intervista strana, in cui le domande iniziali erano quasi sempre più lunghe delle risposte, come se dalla Chiesa si fosse ritrovato ad avanzare nella penombra, ad adattarsi progressivamente al buio in cui si ritrovava, a cercare familiarità e punti di riferimento. In coda (in cauda venenum) c’era però un non detto di cui dalla Chiesa era consapevole, ma che affrontava quotidianamente con stoico coraggio: “la mafia ti colpisce però da vicino, dopo averti isolato”.
I sicari di Cosa Nostra l’attesero la sera del 3 settembre in via Carini. Dalla Chiesa era in auto con la giovane moglie, sposata in seconde nozze il 10 luglio, Emanuela Setti Carraro. Raffiche di mitra bruciarono le loro vite e quella dell’agente di scorta, Domenico Russo, morto il 15 settembre dopo dodici giorni di agonia. Carlo Alberto dalla Chiesa avrebbe compiuto 62 anni il 27 settembre. I mandanti e gli esecutori di quegli omicidi sono stati arrestati e condannati, ma le mafie continuano ad avvelenare le nostre vite. E lo faranno fino a quando non si sottrarranno loro i diritti dei cittadini che spacciano per favori.
Posted on: 2021/09/03, by : admin
Anche per il generale dei carabinieri dalla Chiesa era un ritorno in Sicilia. Aveva conosciuto l’isola nel 1949, durante il periodo di repressione del banditismo, della banda Giuliano, delle collusioni tra mafiosi nostrani e italoamericani, separatisti siciliani, servizi segreti americani e indigeni; una vischiosità maleodorante che a parole combatteva il crimine sulle pagine dei giornali, ma che a fine corsa era interessata ad usarlo alla conservazione delle prepotenze dei feudi e a negare le rivendicazioni di giustizia e la fame di terra dei contadini. Lo Stretto di Messina l’avrebbe riattraversato nella seconda metà degli anni Sessanta con il grado di colonnello, comandante della “Legioni carabinieri Sicilia”. Anni caratterizzati da una forte impronta “pedagogica” che diedero a dalla Chiesa l’opportunità di guardare da vicino la nuova mafia che si era spogliata dei suoi tratti rurali per abbracciare la “modernità”, il business, specchio demoniaco di un Paese folgorato dal boom economico. Era la mafia che allungava i suoi tentacoli in lucrosi affari sul territorio, che intesseva rapporti con la finanza e il sistema bancario, che misurava il suo potere di coercizione sull’imprenditoria. Era la mafia dei Liggio, Badalamenti, Bontate, Alberti, Calderone, padroni di Palermo e dintorni che a braccetto con il loro plenipotenziario e sindaco della città Vito Ciancimino provvedeva a soffocare la libertà e i diritti dei palermitani e dei siciliani. I corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano erano ancora sullo sfondo, ma lo sarebbero rimasti per poco. Dal porto delle nebbie sarebbero presto emersi prepotenti e vincenti per decidere il destino di dalla Chiesa e dopo di lui di altri eroi caduti nella lotta alla mafia.
Quel 30 aprile del 1982, con corpi di Pio La Torre e Rosario di Salvo ancora caldi, il prefetto antimafia Carlo Alberto dalla Chiesa, il generale dei carabinieri che con intelligenza ed acume aveva battuto il terrorismo, comprese immediatamente che lo scontro con Cosa Nostra sarebbe stato radicale. E il film da quel momento avrebbe avuto soltanto fotogrammi in bianco e nero, con un unico colore ammesso, il rosso sangue. Sarebbe stato il suo.
“La mafia è cauta, lenta ti misura, ti ascolta, ti verifica alla lontana”, avrebbe detto il generale-prefetto al giornalista Giorgio Bocca in un’intervista pubblicata su la Repubblica il 10 agosto e diventata una sorta di suo testamento politico nel reclamare, attraverso i “poteri speciali” che gli erano stati promessi, la presenza dello Stato perché “l’arroganza mafiosa deve cessare”. Un’arroganza che dall’inizio di quel mese si era sostanziata in otto morti e un sequestrato. Fu un’intervista strana, in cui le domande iniziali erano quasi sempre più lunghe delle risposte, come se dalla Chiesa si fosse ritrovato ad avanzare nella penombra, ad adattarsi progressivamente al buio in cui si ritrovava, a cercare familiarità e punti di riferimento. In coda (in cauda venenum) c’era però un non detto di cui dalla Chiesa era consapevole, ma che affrontava quotidianamente con stoico coraggio: “la mafia ti colpisce però da vicino, dopo averti isolato”.
I sicari di Cosa Nostra l’attesero la sera del 3 settembre in via Carini. Dalla Chiesa era in auto con la giovane moglie, sposata in seconde nozze il 10 luglio, Emanuela Setti Carraro. Raffiche di mitra bruciarono le loro vite e quella dell’agente di scorta, Domenico Russo, morto il 15 settembre dopo dodici giorni di agonia. Carlo Alberto dalla Chiesa avrebbe compiuto 62 anni il 27 settembre. I mandanti e gli esecutori di quegli omicidi sono stati arrestati e condannati, ma le mafie continuano ad avvelenare le nostre vite. E lo faranno fino a quando non si sottrarranno loro i diritti dei cittadini che spacciano per favori.
Posted on: 2021/09/03, by : admin