La sfida di Biden: eliminare le tossicità di Trump

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

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La soddisfazione con cui l’Europa ha accolto l’elezione di Biden alla Presidenza degli Stato Uniti non risolverà automaticamente tutte le questioni lasciate dalla gestione Trump, sia in termini di politica economica che di rapporti diplomatici (l’antipatia epidermica tra l’ex Presidente USA e la Merkel è cosa nota). In una visione manichea dove Trump è il male e Biden il bene, si rischia di cadere nell’illusione di una risoluzione semiautomatica dei problemi.

Un’Europa debole è un’Europa più isolata

L’Europa si presenta più debole di quattro anni fa. Già con la Presidenza Obama il fulcro della politica estera americana si era significativamente spostata verso il Pacifico, rendendo la NATO sempre meno determinante nello scenario internazionale. Negli ultimi quattro anni l’isolazionismo trumpiano ha tenuto l’America lontano da tutti i conflitti internazionali, come solo Ronald Reagan era riuscito a fare, ma ha però lasciato irrisolte molte situazioni. L’America fin dagli inizi della sua storia si è sempre dibattuta tra la dottrina Monroe volta ad un interesse concentrato sul continente americano e la dottrina Jefferson che teorizzava gli Stati Uniti come i grandi propulsori di un “impero delle libertà”. Dopo duecento anni la politica d’oltre Oceano si dibatte ancora tra assumere la funzione di “sceriffo del mondo” ed esportatrice della democrazia o interessarsi esclusivamente dei propri interessi.

Con Trump, gli USA hanno ridotto gli impegni militari in Medio Oriente e in Afghanistan ed hanno evitato di essere coinvolti nel conflitto libico e nei contrasti tra Grecia e Turchia. Problemi su cui l’Unione Europea non ha saputo, finora, prendere una posizione netta, avendo solo cura di evitare la militarizzazione dei conflitti, anche perché consci di non poter contare sul sostegno americano. Probabilmente con Biden, le flotte americane saranno più attive nel Mediterraneo, ma il problema di chi pagherà le ingenti spese che ne deriveranno (problema aperto da Trump, con finalità demagogiche) si ripresenterà al primo contrasto nel Mare Nostrum, con un’Europa ancor più divisa e inconcludente. Le sanzioni inferte alla Russia o le pressioni esercitate sul governo turco di Erdogan hanno dimostrato scarsa efficacia se non sono condivise pienamente da tutti i Paesi occidentali, con una perfetta sintonia tra le due sponde dell’Atlantico.

La guerra dei dazi, problema urgente e cruciale da risolvere

Trump ha sollevato con forza (e con i toni un po’ da bullo) il problema dei differenziali dei dazi tra l’America e gli altri paesi: Cina ed Europa, in particolare. La riconquista da parte dei democratici di alcuni Stati, in particolare del Midwestern, comporterà una maggiore attenzione verso le esportazioni dei prodotti manifatturieri e ciò obbligherà anche la nuova amministrazione a portare avanti politiche protezionistiche, diverse nei toni, ma forse non nella sostanza. Sarebbe però errato dire che l’unico cambiamento sarà l’uso obbligatorio della mascherina, anche se con una sanità nel mezzo del guado, con una riforma – Obamacare – mai decollata (e con profonde differenze fra Stato e Stato), il margine di manovra, almeno nei primi mesi, sarà molto limitato anche nel contrasto alla pandemia.

Sotto il profilo monetario, la Federal Reserve di Jerome Powell (la più potente istituzione finanziaria del mondo) ha dimostrato di saper resistere all’irruenza trumpiana e tutto lascia pensare che continuerà a muoversi sui parametri prefissati, volti sicuramente ad una politica di accomodamento ma non a rivalutare il dollaro (Trump ne chiedeva la svalutazione, per agevolare le esportazioni americane) e probabilmente senza strappi e senza rincorrere i dati della pandemia (così come ha fatto in questi mesi). Non può sfuggire che anche nei periodi di maggior incertezza su risultato del voto, la Wall Street presentava indici in decisa crescita, confermati poi con la vittoria di Biden. Il quadro rimarrà però probabilmente ancora incerto finché in Georgia non si voterà per i due senatori: solo allora si saprà se i democratici avranno, nella migliore delle ipotesi, la parità nella Camera Alta, che però essendo presieduta dalla vicepresidente Harris, il cui voto in caso di parità vale doppio, permetterebbe una risicata supremazia democratica: se uno dei due senatori georgiani sarà repubblicano si ricreerà una situazione di non controllo del Presidente su uno dei due rami del Congresso (cosa peraltro tipica in questi ultimi decenni). In questo contesto, la FED continuerà a svolgere il suo lavoro, ma bisognerà vedere se la politica, uscita da uno scontro durissimo, saprà muoversi in autonomia e concepire prospettive di ampio respiro per dirimere problemi, come quello dello scontro raziale, che neanche Obama era riuscito a risolvere.

Alla prova dei fatidici “primi 100 giorni”

Sulle cadute di stile di Trump si possono scrivere libri. Peccato soltanto che anche Barak Obama (sicuramente tra i più grandi Presidenti che gli Stati Uniti abbiano avuto) abbia rinunciato al suo ruolo di Padre Nobile della Patria, per buttarsi nell’arena degli insulti. Così come l’oscurare l’intervento di Trump da parte di alcuni giornalisti non ha rispecchiato la tolleranza di Voltaire, richiamata di recente, da Macron. Meglio i repubblicani, come l’ex Presidente Bush o il senatore Romney che hanno riconosciuto la vittoria di Biden, contribuendo così a quell’opera di rappacificazione di cui l’America (come il resto del mondo) ha quanto mai bisogno. Se in passato, i primi 100 giorni del nuovo presidente permettevano di attuare significativi cambiamenti e importanti riforme, Biden (in grado di presentare un programma con notevoli contenuti e forse, proprio per questo, ha vinto) per essere il “Presidente di tutti” rischia di non riuscire a diventare immediatamente efficace. Possono così andar deluse le aspettative di noi europei che ci illudevamo in una rapida disintossicazione dalle tossine del trumpismo, senza un attento studio del perché la quasi metà dei cittadini della più grande democrazia ha votato per Trump, che se non fosse stato per il coronavirus, probabilmente sarebbe stato rieletto. In America, la mentalità calvinista porta a chiedersi – con un eccesso di semplicismo, va detto – se oggi si è più ricchi o più poveri di quattro anni fa quando fu nominato Trump? Domanda comunque che forse dovrà porsi anche il duo Biden-Harris, se vorrà guarire l’America dalle stesse eccessive semplificazioni e contraddizioni che da quella domanda derivano.

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Posted on: 2020/11/10, by :