Lotta al terrorismo: terreno scivoloso per Biden

di Germana Tappero Merlo|

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L’unico riferimento effettivo del pensiero di Joe Biden circa il terrorismo è riportato in un discorso fatto nel luglio del 2019 a New York, e in seguito con sparsi e vaghi riferimenti nel corso di interviste durante la campagna elettorale. Di fondo, e al momento, la nuova amministrazione non avrebbe intenzione di trattare la questione terrorismo come “una minaccia esistenziale” degli Stati Uniti, anche se, stando a Biden, non esiterebbe “a difendere gli americani e l’integrità dei loro interessi con l’uso della forza”. In pratica, “abbiamo il più potente esercito del mondo e rimarrà tale”, e se le minacce dovessero arrivare da al-Qaeda e Stato Islamico (IS), la risposta sarà militare, ossia con droni e bombardamenti mirati. Insomma, non molto distante da quel “military dominant approach” che già fu di Barack Obama.

Le riserve della nuova amministrazione Usa alla strategia “boots on the ground”

Quindi più un contrasto al terrorismo con l’uso di corpi speciali e intelligence che un approccio da contro-insorgenza, ossia l’ampio uso delle forze armate (per intenderci i boots on the ground, letteralmente stivali in terra, cioè truppe sul terreno) com’è stata la strategia posta in atto da George W. Bush in Afghanistan e Iraq contro al-Qaeda dopo l’11 settembre, e poi ripresa con alterne vicissitudini anche da Barack Obama in Afghanistan. Una strategia di contro-insorgenza che, anche nelle parole di Biden, si è rivelata decisamente molto costosa, troppo anche in termini di vite di soldati americani, dai risultati non sempre vittoriosi e certamente non immediati. Sicuramente, secondo Biden, è stata anche controproducente nella lotta al terrore, riferendosi al crescente antiamericanismo che le guerre al terrore avrebbero alimentato negli animi di molti musulmani. Porre fine quindi ai conflitti infiniti, in Afghanistan e Medio oriente, è l’obiettivo di Biden. Guerre che originano e alimentano il terrorismo. Ma il problema centrale, anche per un presidente americano, resta quello di comprendere la natura mutevole della minaccia terroristica.

Gli errori d’interpretazione della strategia trumpiana

Nell’ottobre del 2019, in occasione dell’eliminazione del Califfo al-Bagdadi Trump aveva trionfalmente affermato che il terrorismo era stato sconfitto. Quel trofeo l’aveva fatto esultare, dopo anni di denigrazione dell’operato di Barack Obama nell’operazione di eliminazione di Osama bin Laden nel 2011, perché il suo predecessore si sarebbe limitato a dare solo “vaghe indicazioni”, come riportato in un suo tweet di esaltazione del vero artefice di quel blitz, l’amm. William McRaven. Il gioco di squadra, d’altronde, non è certo una prerogativa della politica trumpiana, e lo ha dimostrato più volte. Ma Trump è incorso in un errore più grave: ha semplicemente ridotto l’intera questione di minaccia dello Stato Islamico alla pericolosità di al-Bagdadi. Banalmente, ma pericolosamente per un presidente degli Stati Uniti, è caduto nel tranello della decapitation strike strategy, ossia pensare che, eliminato il capo di un’organizzazione terroristica, la minaccia scompaia. Peccato che non funziona con un’IS che è soprattutto un progetto identitario per un Islam radicale, intellettualmente molto vivo e pericolosamente vegeto, dove la sconfitta militare è importante ma non sufficiente. Perché all’IS è necessario contrapporre anche una guerra culturale, perché è Islamic State of mind, e quindi significa anche fare una guerra a quelle menti istruite nella violenza contro il “diverso da sé” e con una visione distorta dell’Islam. Oppure, con un ragionamento più terra terra ma pragmatico, come piace agli americani, la decapitation strike strategy non funziona con un’Idra a più teste come il sedicente Stato Islamico che, sebbene senza più il suo potente Califfo – sostituito da un personaggio di pressoché nulla carica carismatica – è pur tuttavia ancora in grado di agire militarmente in Iraq e Siria, senza parlare degli affiliati nel resto del mondo, dalle Filippine, Somalia, Nigeria, Libia, Yemen ed anche in Afghanistan. Tutto ciò perché è sempre un errore ridurre lo Stato Islamico ad un solo leader, come anche ridurre quell’intera organizzazione ad un marchio fermo, stabile. È invece una minaccia fluida, estremamente adattabile al contrasto che gli viene frapposto, tanto da aver cambiato strategia ancora una volta, l’ennesima dal 2014 ad oggi, per la propria salvaguardia.

Le ripercussioni nel mondo della nuova tattica dell’IS

Quello posto in essere oggi dallo Stato Islamico è infatti un nuovo terrorismo insurrezionale, con un ennesimo cambio di tattica, laddove invece che all’insorgenza della massa della popolazione musulmana contro i propri governi “infedeli”, l’IS si rivolge al singolo individuo come strumento di eversione. L’IS lo ha adottato in Iraq e Siria, lo ha esportato nei territori controllati dai suoi affiliati in tutto il mondo e lo esalta ora anche per i suoi “soldati” in Europa e nel mondo non musulmano, Stati Uniti compresi. E la rivendicazione dell’atto terroristico di Vienna ne è la prova più recente. Biden sembra averne preso coscienza e ha sottolineato come gli Stati Uniti concentreranno la loro attenzione su al-Qaeda e IS, intese come minacce transnazionali, anche se il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan, voluto da Trump e per ora non smentito da Biden, per molti osservatori significherà consegnare quel Paese ai talebani. I quali, poi, per tattiche e obiettivo finale, rimangono un gruppo di riferimento per il terrorismo jihadista, con il rischio, quindi, che l’intero Paese centroasiatico ritorni ad essere uno ‘Stato’ terrorista. E qui subentra un’altra grave questione. Trump ha sempre legato la minaccia terroristica per gli Stati Uniti all’immigrazione (e anche alle malattie mentali, ma questo è un altro discorso ancora), per cui bandire immigrati da certi Paesi islamici, allontanare quelli non in regola e diminuire i rifugiati avrebbe garantito l’America dai terroristi (e dai criminali). Biden sembra invece determinato a porre fine al bando dell’immigrazione e dell’entrata negli Stati Uniti di soggetti provenienti da Paesi musulmani che, con la questione del muro con il Messico, sono da considerarsi misure “razziste e veramente in grado di minacciare la sicurezza americana”. Perché l’obiettivo di Biden è quello di evitare che al-Qaeda, IS ed altri gruppi affiliati continuino ad indicare quei provvedimenti come la dimostrazione che l’America è islamofobica, e che quindi odia l’Islam attraverso la sua gente. Lo Stato Islamico e organizzazioni simili si diffondono in stati falliti, zone di guerra, territori occupati ed enclavi che si sentono vittime del governo centrale, ma anche là dove prospera un ampio risentimento contro i musulmani, che si riflette appunto nelle politiche di immigrazione, nei divieti culturali inflessibili (ad esempio contro l’hijab) e nelle azioni violente degli estremisti di destra. Lo Stato Islamico è la massima espressione della polarizzazione di questo risentimento. Ecco perché continuerà ad esistere fintanto che la polarizzazione sottostante rimarrà vigorosa.

Il rischio di nutrire i gruppi xenofobi e razzisti americani

Ma vi è un rovescio della medaglia, un’ulteriore sfida per Biden, perché eliminare e non limitarsi a sospendere l’implementazione di quelle politiche volute da Trump di blocco dell’immigrazione, dai paesi musulmani così come dal confine con il Messico, può avere risvolti anche tragici. Significa dare fiato ai gruppi dell’estremismo di destra interni che detestano i musulmani al pari dei messicani, entrambi rei, a loro parere, di disordine, terrorismo e criminalità. Per loro l’esperimento di convivenza fra diverse etnie, il melting pot, è fallito, e l’alternativa è la secessione oppure sarà il disastro. In pratica l’obiettivo di ripristinare l’ordine è venuto a mancare, per cui costoro si arrogano il diritto di ristabilirlo, per un sacrosanto dovere verso la comunità, soprattutto se quella bianca, antisemita, e con questo anche anti-islamica, americana. Ecco perché vi è il rischio, non così remoto, che la nuova amministrazione Biden si debba presto confrontare con quest’estremismo interno che come minaccia, per grandezza e radicalità, è ora decisamente maggiore di quella di un terrorismo arrivato in quell’11 settembre di circa vent’anni fa, dal di fuori del territorio americano.




Posted on: 2020/11/13, by :