Statuto dei lavoratori e post pandemia: un bel rebus

di Mauro Nebiolo Vietti |

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Quando usciremo dalla pandemia dovremo adattare regole vecchie a situazioni nuove ed indubbiamente ciò varrà anche per il sistema normativo che regola il rapporto di lavoro. Qui occorre una precisazione; vi sono alcuni istituti del diritto che sono pressoché immutabili (si pensi al diritto di proprietà che abbiamo mutuato dal diritto romano) ed altri invece che, in occasione di profonde trasformazioni sociali, risultano superati dall’evoluzione dei mercati, dell’economia e dal comportamento del cittadino, portatore di una coscienza sociale diffusa che non si adatta più ad una norma considerata a torto o ragione desueta. Uno di questi settori è il diritto del lavoro. Quando nel 1970 fu approvato lo Statuto dei Lavoratori vi si trasfuse una sintesi finalizzata da un lato a non ostacolare lo sviluppo dell’impresa e dall’altro a garantire dignità e ruolo al lavoratore dipendente; ovviamente il legislatore modulò le norme sulla base della situazione del momento che vedeva l’industria arrivare da un periodo di crescita tumultuosa, ove la necessità non era di favorire la creazione di posti di lavoro, ma di garantire la dignità dei lavoratori già occupati. Poi passarono i decenni e, cambiando il mercato del lavoro, il legislatore prese atto dei mutamenti sociali che lo indussero ad adeguare la normativa; per meglio spiegare il concetto facciamo due esempi.

L’art. 4 dello Statuto prevedeva il divieto dei controlli a distanza sul comportamento del dipendente sul luogo del lavoro, ma nel 1970 c’erano solo le telecamere ed i telefoni con gli impiegati che lavoravano con carta e penna; la radicale innovazione tecnologica ha reso obsoleta la norma perché ormai l’elettronica rappresenta un canale di comunicazione che può, anche senza volerlo, evidenziare profili lavorativi ed allora, con una riforma del 2015, il Parlamento ha voluto adeguare la tutela della privacy del lavoratore senza creare impedimenti al normale utilizzo aziendale degli strumenti informatici.

Un caso particolarmente significativo è quello delle “collaborazioni coordinate e continuative”; esse furono introdotte nel 1973 con una sola riga nel codice di procedura civile e senza alcuna altra specificazione; fu così che venne introdotto un concetto fino ad allora sconosciuto che creò un mercato importante in molti casi rispondendo ad esigenze reali delle imprese, in altri al solo scopo di coprire abusi. Fu il c.d. decreto Biagi (2003) a prendere atto dell’esistenza di un mercato spontaneo ed a dettarne le regole. In entrambi i casi il legislatore decise di intervenire osservando lo sviluppo della realtà e lo fece con provvedimenti destinati non ad “indirizzare”, ma a regolare un mercato sviluppato per iniziativa delle parti.

Ritornando ora alla premessa, occorre chiedersi se il legislatore lascerà che il mercato del lavoro si assesti nelle nuove direzioni che individueranno le parti sociali o interverrà con provvedimenti dirigisti. Personalmente mi auguro che prevalga la prima soluzione perché un intervento finalizzato ad indirizzare non può che essere connotato da un orientamento politico ove l’ansia di recuperare consensi elettorali può indurre in errori strategici. Non è detto che gli orientamenti che sorgeranno nel mondo del lavoro godranno di un consenso sociale generalizzato; esempi del passato come le conseguenze nell’ottobre del 1980 della marcia dei 40 mila a Torino sull’uso della CIG a rotazione o dell’accordo Agnelli–Lama sul punto unico di contingenza nel 1975 sono stati frutto di forti momenti conflittuali, ma hanno rappresentato occasioni di assestamento sociale costituendo, a loro volta, punti di partenza per nuovi confronti.

Se invece il Governo deciderà di stabilire a priori le nuove regole senza analizzare le nuove realtà, il rischio di provocare malformazioni del futuro mercato del lavoro è alto e lo è particolarmente anche considerando il livello culturale medio degli attuali ministri.




Posted on: 2020/12/04, by :