Governo giallorosso e immigrazione: sarà discontinuità vera o presunta?

di Michele Ruggiero |



La lotta all’immigrazione, illegale e non, ha contrassegnato più di altri ambiti la parabola politica del governo Conte I (gialloverde, anche detto del cambiamento). Tendenzialmente, la principale responsabilità di questa sovraesposizione, inevitabilmente anche mediatica, ha avuto come deus ex machina l’ex ministro dell’Interno Matteo Salvini propugnatore, durante i 14 mesi di governo, dei Decreti sicurezza 1 e bis (D.L. 4 ottobre 2018, n. 113 e D.L. 14 giugno 2019, n. 53). Atti legislativi, è stato spiegato al Paese, rivolti al contrasto degli sbarchi sulle coste italiane e al rafforzamento della sicurezza alle nostre frontiere. Ma, è altrettanto vero che, in misura direttamente proporzionale allo spazio che la spinosa questione si è via via conquistata nel dibattito politico e nell’informazione tout court, quelle stesse iniziative legislative hanno finito per assumere i connotati di una lotta ideologica e pregiudiziale contro soggetti genericamente definiti immigrazionisti, se non addirittura complici dei trafficanti di esseri umani. Tra questi, sono stati indicati sistematicamente le navi umanitarie che operano nel Mediterraneo, le associazioni dedite all’accoglienza, i partiti del centro-sinistra, la Caritas. Una lotta – coerente alle promesse e alle proposte di Matteo Salvini in campagna elettorale, e altrettanto nota ai suoi alleati del Movimento Cinque Stelle – condotta in nome della sicurezza nazionale e della chiusura degli ingressi (strategia dei porti chiusi), che si è nutrita di quella retorica identitaria che più di altre si presta alla capacità di mescolare rancori sociali, simboli religiosi, rivendicazioni nazionaliste e viscerale antieuropeismo. Del resto, con l’ascesa al potere, la Lega e Salvini hanno soltanto amplificato lo spirito manicheo (da una parte i buoni, dall’altra i cattivi) che in ogni epoca storica favorisce la confusione attorno ai valori democratici nel nome di una maggiore sicurezza e, soprattutto, ordine sociale. A poco sono valse in questi mesi, infatti, le riserve espresse da più voci sulla conformità dei provvedimenti governativi ai principi della Costituzione e al quadro dei diritti fondamentali: forti di un consenso influenzato dalla retorica sopra descritta, i Decreti sicurezza 1 e bis hanno avuto un cammino legislativo relativamente semplice e un’applicazione che ha giocato sempre a favore della visibilità dell’ex titolare del Viminale, dando corso a un loup di blocchi, dirottamenti e sequestri di navi umanitarie al largo di quei porti della nostra penisola giudicati approdi sicuri per i salvataggi. Ad un tempo, però, sono rimasti irrisolti i tanti problemi legati al fenomeno migratorio: dall’integrazione sociale alla sostenibilità dell’accoglienza, dai rimpatri alla cooperazione con i paesi d’origine, dalla mediazione culturale ai servizi non solo assistenziali.

Con l’improvvisa capitolazione del Conte I e il rapido varo del Conte II (giallorosso, da qualcuno ribattezzato della discontinuità), la politica migratoria nazionale potrebbe avere un’insperata occasione per cambiare indirizzo. Il condizionale è d’obbligo giacché più di un elemento gioca a sfavore di questa prospettiva.  Pesa, infatti, l’eredità della politica migratoria del Conte I, difficile da cancellare o modificare, per lo meno in tempi brevi. Sul terreno, infatti, insieme all’inasprimento legislativo a danno degli ingressi dei migranti, degli attracchi delle navi delle Ong, della condizione giuridica della cittadinanza acquisita (divenuta, per la prima volta nella storia italiana, revocabile), della protezione umanitaria (cancellata), del sistema dell’accoglienza e dell’asilo (fortemente definanziato), è rimasta principalmente l’eredità di un senso comune impastato d’odio. Un senso comune che individua nelle migrazioni e nei migranti le cause delle tante insicurezze sociali (dalla disoccupazione, al precariato, all’impoverimento della classe media, alle insufficienze dei servizi alla persona), che tende a sfogare la propria rabbia in atti discriminatori e gesti inconsulti. Un senso comune che, condannato a parole, non è contrastato nei fatti, mediante provvedimenti, per non inasprire le suscettibilità e allargarne il perimetro, per paura di porre le premesse di un terribile boomerang in sede elettorale.

Non a caso la bozza integrale del programma del governo M5S-Pd affronta l’immigrazione solo al 15° punto. Vi si legge: È indispensabile promuovere una forte risposta europea al problema della gestione dei flussi migratori, anche attraverso la definizione di una normativa che persegua la lotta al traffico illegale di persone e all’immigrazione clandestina, ma che – nello stesso tempo – affronti i temi dell’integrazione. La disciplina in materia di sicurezza dovrà essere aggiornata seguendo le recenti osservazioni formulate dal Presidente della Repubblica.

Da queste poche righe appare arduo scovare elementi di discontinuità con la politica migratoria del governo gialloverde. Il richiamo europeo e l’accenno all’integrazione non sono certamente motivi sufficienti a segnare un cambio di passo, come anche il riferimento alle osservazioni del Presidente della Repubblica al D.L. Sicurezza bis, che ne mitigherebbero forse l’applicazione, ma non certo la sostanza. La formula sbarcare in Italia deve significare sbarcare in Europa, che tante volte in questi giorni abbiamo sentito ripetere dal Presidente del Consiglio, rischia di suonare come uno slogan per eludere il problema più che per affrontarlo: un modo, cioè, per allontanarlo dallo scenario nazionale, per consegnarlo alle responsabilità europee. Responsabilità ineludibili, ma partorite dalla forte crisi di fiducia dovuta alle lacerazioni sorte nella scorsa legislatura europea. Non a caso, a tutt’oggi, il quadro dei 28 paesi dell’Ue manca di una sintesi in materia di migrazioni e asilo: se, per un verso, vige una generale concordia sulla scelta di rafforzare il controllo delle frontiere esterne, sul fronte dell’accoglienza i paesi permangono divisi, taluni anche con rigidi atteggiamenti di riluttanza (esemplare al riguardo è la mancata riforma del Regolamento di Dublino, oggi ridiventata promessa politica).

Del resto, tanto a Bruxelles, come a Roma, prospettive che potrebbero incidere positivamente nella gestione dei flussi migratori non riescono ancora a trovare sufficiente spazio per affermarsi. Non viene considerata, per esempio, l’esigenza di allargare le reali possibilità di ingresso legale dei migranti nei paesi Ue, evitando così di accrescere le vie “illegali” in mano alle reti di passeur. Parimenti, si trascura che il fenomeno delle navi umanitarie nasce di fronte all’incapacità dell’Ue di creare canali umanitari sicuri in grado di evitare le stragi nel Mediterraneo: una sfida che potrebbe essere riaffrontata, soprattutto in un contesto di “bassa intensità” come è quello attuale. Ancora: la quasi esclusiva preoccupazione di arginare gli ingressi “illegali” ha nella sostanza distolto l’attenzione da tutti quegli altri aspetti che rappresentano, invece, la sostanza più problematica delle migrazioni. Parliamo, cioè, della convivenza sociale, che quotidianamente mette a contatto nelle nostre città persone di provenienza diversa, con fedi, lingue, tradizioni e modelli di vita differenti. Scuola, lavoro, servizi, spazi comuni di crescita: sono questi gli ambienti in cui potrebbe formarsi un atteggiamento di rispetto e tolleranza, dove, all’opposto, osserviamo invece nascere sentimenti conflittuali, xenofobi e razzisti.

Se è oggettivamente troppo presto per esprimere giudizi, è doveroso mantenere alta la guardia dell’attenzione per controllare che sia mantenuta la promessa discontinuità in materia migratoria. In proposito, il discorso di insediamento che il Presidente Conte ha pronunciato oggi alla Camera ricalca da vicino il 15° punto del programma, con un più marcato riconoscimento, però, del carattere strutturale delle migrazioni e della necessità di operare sul piano dell’integrazione: resta da capire se questi due elementi potranno realmente fornire le basi per un cambio di approccio al fenomeno, o non saranno invece che semplici mitigazioni di un impianto che rimane, nella sostanza, securitario.

Anche l’abrogazione dei due D.L. Sicurezza (cosa nient’affatto scontata) non costituirebbe, infatti, un atto sufficiente a invertire il verso securitario intrapreso a livello legislativo. Un verso che comincia, a livello nazionale, nel 1998 con Legge Turco-Napolitano, per irrigidirsi nel 2002 con la Legge Bossi-Fini, la quale, a diciotto anni di distanza, nonostante modifiche parziali e miriadi di critiche, è ancora il dominus che regola la complessa materia, seconda per longevità legislativa nella storia italiana soltanto al Regio Decreto 773 del 1931, il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza di epoca fascista, vigente fino al 1986.


Posted on: 2019/09/09, by :

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