Usa, sette massacri in sette giorni. Una violenza tutta da ristudiare

di Germana Tappero Merlo |

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Un’altra sparatoria, in Colorado, in un supermercato, con 10 persone uccise. È la settima in 7 giorni negli Usa, con morti e un numero notevole di feriti. Una settimana di sangue iniziata con l’episodio di Atlanta, con 8 vittime, la cui condanna è stata data dal fatto di essere asiatici. Un crimine razzista misto all’odio, quindi, ma di quelli che, purtuttavia, si possono ancora etichettare, mentre i restanti – di quello odierno non si sa ancora il movente – rimangono senza una chiara motivazione. Perché il fenomeno delle sparatorie di massa, mass shooting, sta in realtà assumendo una frequenza, ma soprattutto una connotazione non-ideologica che preoccupa gli analisti per la sicurezza, non solo americani ma anche europei.

Negli Stati Uniti, la responsabilità è spesso attribuita alla facile disponibilità di armi e all’abusato ricorso al Secondo Emendamento che, peraltro, giustificherebbe – secondo i suoi sostenitori, e come dargli torto se interpretato letteralmente – anche la costituzione di milizie per la difesa dello Stato. Da qui il sentirsi legittimati ad agire, ben armati, come i Boogaloos Bois, e i Proud Boys, nell’attacco a Capitol Hill a gennaio scorso e che, non a caso, definiscono “Second Amendment rally” il loro congresso annuale. Ma le armi automatiche sono lo strumento, peraltro sostituibile con mezzi forse meno letali, come coltelli o asce, o rudimentali, come bombe fatte in casa con pentole a pressione e chiodi.

Non è, infatti, questo il problema centrale, perché in concreto c’è qualcosa di molto più subdolo e riguarda ormai una caratteristica dei mass shooting in varie parti del mondo occidentale, anche nei casi (pochi per fortuna) registrati in Europa, ossia il fatto che l’omicida è spinto da così tanti elementi ideologici da non averne alcuno di specifico. Da qui la definizione, da parte di noi analisti, di soggetti mossi da mixed, “unstable and unclear ideologies”, ossia ideologie miste, perché di varia provenienza, instabili perché sovente sciorinano concetti che oscillano fra gli opposti estremismi, e sono anche poco definite nella mente di quei soggetti ma a fondamento delle loro azioni omicide, in cui costoro utilizzano tattiche e mezzi atti a perpetrare solamente pura violenza terroristica.

È la dimostrazione che il terrorismo non è ideologia, come ci eravamo abituati a etichettarlo dopo le esperienze degli anni ’70 e sino al jihadismo estremo odierno, quanto una tattica. Non è più dato, quindi, dall’obiettivo soltanto, ossia l’attacco a civili inermi o soggetti con cariche simboli di uno Stato che si considera nemico, ma soprattutto dal modus operandi, in questo caso, di un numero crescente di soggetti che agiscono in solitaria. Il fenomeno è stato notato soprattutto nel Regno Unito: se nel biennio 2016/17, nell’insieme degli attacchi violenti, l’11% riguardava il contesto di mixed ideologies, nel 2019/20 si è passati al 51%, seguiti dal 24% del jihadismo e 22% dell’estrema destra. E la facilità nel detenere armi, qui, è esclusa, perché l’accesso del pubblico alle armi da fuoco, nel Regno Unito, è soggetto a misure di controllo fra le più severe al mondo. Anche qui, come negli Stati Uniti, si impongono altre cause.

I moventi sono per lo più personali, di ricerca identitaria e di frustrazione, là dove internet e i social media sono strumenti diabolici di reclutamento, perché permettono a costoro la partecipazione virtuale a gruppi, in questo caso caratterizzati da odio estremo che può portare alle azioni violente di cui, quasi settimanalmente, siamo testimoni. Costoro non odiano il diverso da sé, come si è comunemente portati a credere, appunto per razza, religione o idee: partecipano attivamente on line perché appartenere, anche solo virtualmente, ad una comunità che hanno ricercato meticolosamente, cui sono stati ammessi come ‘selezionati’, e che quindi considerano selettiva, è parte di un percorso identitario che finisce per aumentare la loro autostima. Non è un caso che questi gruppi on line insegnino ai loro fruitori l’odio e la violenza, sfruttando la loro paura di perdere proprio l’appartenenza alla struttura comunitaria. E questo fatto fa emergere il grave limite a cui il legislatore, in una auspicabile collaborazione fra pubblico e privato, dovrebbe porre rimedio, perché le piattaforme social sono state usate per documentare, incoraggiare e affascinare alla violenza.

Tuttavia pochi studi sono stati fatti su come usare quelle stesse piattaforme per diffondere una contro-narrativa. E questo vale per i più generici consumatori di odio, così come per l’estremismo violento del radicalismo di destra. Sarebbe infatti opportuno che la strategia di de-platforming utilizzata dalle grandi piattaforme social contro l’estremismo jihadista, e che in parte sta dando i suoi frutti, venisse ora impiegata contro quello della destra ideologica violenta e radicale, così come quello dei predicatori e dei dispensatori di odio dalle ideologie miste, instabili e poco chiare. Urge intervenire perché le frustrazioni personali, date dalle insicurezze di una quotidianità avversa, per effetti da pandemia, crisi economica o addirittura fallimento sentimentale – è il caso degli Incels, da involuntary incels o ‘forzatamente celibi’, un fenomeno in crescendo dai toni misogini violenti – , non trovino nel mondo virtuale il collante e lo sprone per agire con brutalità, e permettere quindi che diano vita a un’ideologia, a questo punto, unica, stabile e chiara nel suo intento di procurare sanguinario terrore.




Posted on: 2021/03/23, by :