Storia della sanità, capitolo XXX: malattia e peccato

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

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Se l’organizzazione sanitaria è l’arte di rendere umano, efficiente e professionale i rapporti tra il malato e chi si occupa di lui, sia l’Antico che il Nuovo Testamento costituiscono, per il mondo Occidentale, un’importante chiave interpretativa. Con il peccato originale, l’uomo perse il suo stato di perfezione e si trovò ad affrontare sofferenze, fatiche e, non ultimo, le malattie. Il rapporto malattia/peccato, nasce così da un comportamento dell’uomo, ma che l’uomo può modificare.

All’inizio dell’elaborazione della cultura giudaico-cristiano, i patriarchi ebrei vennero sicuramente influenzati dall’approccio assiro-babilonese, dove la malattia era la trasposizione del castigo divino, quale conseguenza del peccato. In questo contesto il peccato era lo sporco (l’impurità) e, di conseguenza, la malattia, la sua origine, mentre il rapporto con la divinità portava alla purezza, quale presupposto per la buona salute. Dio diventa quindi, nella medicina ebraica, la fonte ultima per il risanamento rappresentata simbolicamente anche da numerose prescrizioni igieniche: il lavaggio mani, il cambio d’abito, la circoncisione, le restrizioni dietetiche, sono contemporaneamente pratiche religiose e sanitarie. Viceversa il malato era l’impuro ed andava allontanato: ad esempio il lebbroso doveva essere rinchiuso in aree riservate ed i suoi vestiti dovevano essere bruciati anche per cancellarne il ricordo. In particolare, si ricordano gli obblighi e le costrizioni riconducibili agli aspetti dietetici, tra cui l’impedimento di consumare il sangue, il grasso e la carne di determinati animali (Levitico 7, 23-26: Non mangerete alcun grasso né di bue, né di pecora né di capra… Non mangerete affatto sangue, né di uccelli, né di animali domestici… Chiunque mangerà sangue di qualunque specie, sarà eliminato dal suo popolo), analogo atteggiamento si riscontra nei confronti del consumo dei pesci senza pinne o squame ed in generale di tutti i molluschi, in quanto potenziali portatori di infezioni. Queste prescrizioni furono riassunte da Mosè, che diede al suo popolo precise regole per quanto riguarda le diete, le misure igieniche, la purificazione, l’isolamento dei potenziali soggetti infetti.

Ad un insieme articolato di disposizioni si giunse perché nella cultura ebraica ci si pose con forza una semplice quanto complessa domanda: perché ci si ammala? Giobbe stava bene, era un uomo corretto ed aveva tutto dalla vita, ma ad un certo punto si ammala. Giobbe diventa così il messaggero ai sofferenti che non riescono a darsi una spiegazione su “perché” dell’insorgere improvviso delle malattie. La speculazione filosofica ebraica non si ferma però solo al considerare i pazienti, ma affronta anche il problema delle tribolazioni che non risiedono nelle malattie, ma nell’atteggiamento che le persone assumono nei confronti del malato. Per Giobbe il dolore deriva anche dal dover sopportare i presunti amici che lo vengono a trovare, leggendo nei loro occhi l’ipotesi sottaciuta che se si soffre tremendamente è perché si è peccato molto in tempi passati. Giobbe invoca Dio, ma le sue suppliche non vengono subito esaurite permettendogli così di riflettere sui perché della vita e delle sofferenze dell’uomo sulla terra. Giobbe ha fede e, alla fine, viene accontentato non solo nel senso che guarisce ma perché riesce a far condividere il concetto di malattia con l‘essere umano.

Il problema della salute dell’individuo sono ripresi nel libro del Siracide dove si precisa che è Meglio un povero sano e forte che un ricco malato nel suo corpo, Meglio la morte che una vita amara, il riposo eterno che una malattia cronica (Sir 30,14-17). Il proverbio: Quando c’è la salute, c’è tutto ha progenitori illustri. Negli insegnamenti di Siracide si trovano suggerimenti concreti quali l’astenersi dagli eccessi nell’alimentazione e nelle bevande alcoliche e, più in generale, un comportamento equilibrato e assennato. Più propriamente, per curare le malattie, più che prescrivere farmaci, il testo sacro suggerisce comportamenti virtuosi impostati sul principio che la salute è la gioia del cuore, mentre la gelosia e l’ira accorciano i giorni, le preoccupazioni anticipa la vecchiaia (Sir 30, 22-24). Ciò ovviamente non esclude la necessità dell’esistenza della scienza medica che viene vista come un dono divino e come tale occorre renderne grazie: Onora il medico per le sue prestazioni, perché il Signore ha creato anche lui. Dall’Altissimo, infatti, viene la guarigione… (Sir 38, 1-3). A loro volta, anche i medici devono invocare l’aiuto divino “anch’essi, infatti, pregano il Signore perché conceda loro di dare sollievo e guarigione per salvare la vita” (Sir 38, 13-14) e, di conseguenza, la prescrizione per i medici diventa: Non esitare a visitare un malato, perché per questo sarai amato (Sir 7, 35).

Nel libro del Siracide si ammonisce anche a non eccedere nella fiducia “Chi pecca contro il proprio Creatore, cada nelle mani del medico” (Sir 38, 15-16) perché “Gli occhi del Signore sono su coloro che lo amano, protezione potente e sostegno di forza, riparo dal vento infuocato e riparo dal sole meridiano, difesa contro gli ostacoli, soccorso nella caduta; solleva l’anima e illumina gli occhi, concede Sanità, vita e benedizione” (Sir 16 – 17). Il sacro testo fornisce una delle prime e più belle testimonianze dell’alto valore dei professionisti sanitari affermando che: il Signore ha creato medicamenti dalla terra … Dio ha dato agli uomini la scienza perché potessero gloriarsi delle sue meraviglie. Con esse il medico cura ed elimina il dolore e il farmacista prepara le miscele… il medico non stia lontano da te… Ci sono casi in cui il successo è nelle mani dei medici… il Signore perché li guidi felicemente ad alleviare la malattia e a risanarla, perché il malato ritorni alla vita (Sir, 38, 4-14). L’idea che l’aiuto divino potesse sorreggere, ma non sostituire, il processo medico ha rappresentato un passaggio fondamentale nell’organizzazione delle cure dei pazienti. Dall’idea che la malattia era una punizione divina e che, quindi, non fosse possibile curare ciò che il divino voleva punire, si passò ad una concezione dove la malattia divenne una specie di banco di prova per dimostrare la capacità dell’uomo a determinare il proprio destino.

Una rilettura dei testi sacri può portare a rivedere la posizione del paziente non più solo come oggetto dell’arte medica, ma come attore principale nel processo volto a superare la malattia in quanto a lui compete liberarsi dai peccati e assumere una volontà precisa nel voler guarire. Se, infatti, come insegna il profeta Isaia, attraverso l’esperienza del nobile Ezechia, quando una persona contrae una malattia, il primo sentimento è quello dello sconforto, se non di disperazione, ad esso si deve però sostituire quello della fiducia, sia nell’aiuto che può giungere da Dio, sia nelle proprie possibilità (Is 38,10,16). Riconoscere la propria caducità è cioè un modo per purificarsi ed organizzare le forze per combattere, ovviamente con l’aiuto di Dio, le malattie. In altre parole la malattia esiste, ma si può e si deve combatterla: l’approccio appare chiaro nei miracoli, dove certo vi è un intervento divino, ma quale conseguenza della volontà di riscatto dell’individuo. Tale insegnamento sembra perdersi nella nostra società, dove la malattia non viene più accettata e si pretende che un sistema sanitario, non sempre ben definito, debba prendersi carico del problema. La salute diventa così un problema di diritto e non un problema di atteggiamento individuale di fronte alle inevitabili sofferenze che la vita propone, con la conseguenza che tutto si pretende, senza essere disposti ad accettare inevitabile mortalità del corpo.




Posted on: 2021/04/11, by :