Vaccini, l’incognita della nostra estate

di Giuseppina Viberti
e Germana Zollesi |

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Il 21 giugno siamo entrati ufficialmente nel solstizio d’estate. Sembrerà banale ricordarlo, ma sappiamo bene che la data per molti equivale a sole, mare, montagna, sport e tanto relax. Aggiungiamo che nell’immaginario collettivo, quest’estate dovrà essere il momento del “tutti liberi”, inteso come un auspicio generalizzato e un toccasana per il rilancio dell’economia, al pari dei Recovery plan (scritto bene, ci dice l’Europa, ma che ora bisognerà attuare con pari perizia).

L’abbaglio della voglia di normalità

Del resto, anche i mass media e i social sembrano voler dare la notizia che è tutto passato (in qualche misura accadde anche lo scorso anno di questi tempi) ed i fattori estivi (caldo, aria aperta, raggi ultravioletti) associato alla disponibilità di dispositivi di protezione pressoché illimitati (non era così nel 2020) e, soprattutto, una campagna di vaccinazione che, a parte qualche radical chic (amante del doversi distinguere per affermare la propria originalità), sicuramente produrrà i suoi effetti nel contrasto alla pandemia. Ma abbassare la guardia e non portare con se mascherina e disinfettante potrebbe risultare pericoloso. Facciamo quello che dà poco disturbo (e costa poco) e cominciamo a ragionare su come riorganizzare il sistema.

Il prof. Fabrizio Pregliasco, virologo e docente dell’Università Statale di Milano, sull’Huffington post il 20 giugno ci riporta alla realtà: “Mi aspetto un incremento dei contagi verso fine estate […] La variante Delta è già in Italia e mi aspetto che, come è già successo nel Regno Unito e negli Stati Uniti, diventi presto dominante anche da noi. Per questo tutti dobbiamo mantenere alta la guardia. Secondo i bollettini di questi giorni ci sono circa cento mila persone positive, ma sappiamo che potrebbero essere il doppio, forse il triplo”. Sullo stop all’uso delle mascherine all’aperto, che sono ormai diventate terreno di scontro politico, il professore ci dà una giusta ed equilibrata speranza “direi di attendere ancora qualche giorno per valutare l’andamento dell’epidemia, ma mi sembra una scelta ragionevole, tenuto conto del fastidio di indossarle con il caldo”. Comunque il C.T.S. ha deciso: dal 28 giugno sarà abolito l’uso delle mascherine all’aperto (mentre è ancora in dubbio dove si giocherà la finale di calcio degli Europei).

Queste affermazioni confermano quanto già detto nel precedente articolo “Varianti Covid: perché il Regno Unito è sempre un passo avanti?”1 sulla variante Delta (cosiddetta indiana). La rete italiana per il sequenziamento delle varianti faticherà a prende forma finché non sarà esplicitato come dev’essere strutturata, chi ne deve far parte e soprattutto con quali risorse economiche ed umane potrà essere affrontato un lavoro così importante e impegnativo. Il premier Draghi ha cercato di rimettere la Medicina in linea con le evidenze, impedendo di rendere obbligatoria sotto i 60 anni un’immunizzazione eterologa sulla quale mancano dati scientifici sufficienti, rispondendo al principio che noi non possiamo conoscere tutto (sarebbe una stupida presunzione), ma abbiamo il dovere di mettere in pratica tutto ciò che conosciamo per contrastare l’epidemia.

Il provvedimento non è privo di effetti collaterali: la scelta di fare la seconda dose eterologa rimette nelle mani dei cittadini una scelta che in pochi hanno gli strumenti per compiere da soli ma dovranno rivolgersi al loro medico curante (già oberato di incombenze) o al medico del centro vaccinale e quindi chi deciderà? La decisione del premier contrasta però la percezione popolare di essere “cavie della scienza” e probabilmente scongiura il rischio di una fuga dai vaccini che nessun Paese europeo può permettersi perché la vaccinazione parziale non protegge pienamente dal virus come la variante Delta dimostra nel Regno Unito.

Un’occasione per riformare il sistema

Se ci fosse il coraggio di guardare oltre il Covid, si vedrebbe che l’Italia ha, rispetto agli altri Paesi dell’Europa Occidentale, la più alta mortalità per Covid e non Covid. Nel 2020 l’Italia ha avuto circa 108.000 morti in più della media dei cinque anni precedenti di cui almeno 27.000 per malattie cardiovascolari; i decessi per malattie oncologiche e croniche andranno ad accrescersi dal 2021 in poi per mancati screening e interventi chirurgici ritardati o sospesi. L’emergenza nasconde tutti i nodi irrisolti della Sanità. Il numero di posti letto per centomila abitanti in Italia è il più basso della media europea (314 contro una media di 500). Le terapie intensive non sono raddoppiate come annunciato dal ministro della salute Speranza a maggio 2020 ma, al bisogno, sono stati trasformati altri posti letto in semi- intensiva o intensiva e i posti letto di intensiva sono aumenti di circa 1000.

I medici specialisti ospedalieri sono circa 130.000, 43.000 meno della Francia e 60.000 meno della Germania; i 20.000 assunti per la pandemia sono specializzandi o medici neo-laureati che concluderanno il loro contratto al 31 dicembre 2021, così come tutti i professionisti delle professioni sanitarie (infermieri, tecnici di laboratorio e di radiologia, operatori socio-sanitari) lasciando un vuoto organizzativo incolmabile se non si provvede a dare attuazione ad una riforma complessiva del sistema. Per ovviare al vuoto assistenziale, è stato istituito il contratto a tempo determinato a 36 mesi per molti operatori delle professioni sanitarie in attesa di bandire i concorsi: poiché le Regioni vanno in ordine sparso, alcune hanno già indetto i concorsi e altre no, quindi si crea un avvicendamento vorticoso intra-regionale. Giovani infermieri o tecnici con contratto a 36 mesi in Piemonte sono in graduatoria a tempo indeterminato in altra regione e quindi, dopo aver completato la formazione in loco, vengono chiamati e partono verso il loro futuro sperando poi di riuscire a ritornare a casa con un trasferimento o un nuovo concorso. Un vortice di assunzioni, formazioni e partenze che rappresenta un giostra difficile da gestire e che rischia di compromettere le potenzialità erogative del sistema.

La medicina del territorio, di cui a fasi alterne si parla come la “cura di tutti i mali”, è un punto carente: i medici e i pediatri convenzionati hanno aderito in modo volontario alla campagna vaccinale, non entrano nelle emergenze e fanno con difficoltà da filtro tra il paziente malato e l’ospedale. Ognuno organizza il proprio lavoro come crede: studi in rete, studi associati, case della salute, ecc: sfidiamo un comune cittadino a capirci qualche cosa, anche quando non è ammalato (figuriamoci quando è in preda all’ansia)! Per gli infermieri la situazione è ancora più complessa e di difficile comprensione: studi medici sul territorio con infermieri presenti; altri senza l’infermiere; pochi infermieri dedicati all’assistenza domiciliare: insomma un bel dedalo! Di fronte ad un sistema sanitario pubblico così confuso e diversificato nelle varie regioni, bisogna domandarsi se l’8 per cento dei fondi del PNRR sia sufficiente a modernizzare gli ospedali, organizzare la medicina territoriale, formare e assumere il personale adeguato, aggiornare e gestire la rete informatica e la logistica.

La sostenibilità è il tema principale e la transizione ecologica assorbirà molta parte delle risorse; la qualità dell’assistenza sanitaria e le crescenti aspettative di salute della popolazione rappresentano un tema importante perché migliorare l’ambiente e ridurre l’inquinamento per prevenire le malattie è fondamentale e i risultati però si vedranno nei decenni futuri. Comunque l’estate è arrivata e ci ha portato gli Europei di calcio e le Olimpiadi a Tokio e quindi possiamo illuderci che il peggio è passato: ma proprio questa fase di relativo relax e il poter ragionare senza la scure dell’emergenza dovrebbe portarci a tentare una rivisitazione razionale del sistema e non perderci nell’inseguire i problemi (ma gestirli). _______