Vertici politici: l’ombrello sotto cui nascondere l’ipocrisia

di Germana Tappero Merlo|

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Si è svolto ieri a Roma, 28 giugno, l’incontro tra i Paesi anti-Isis, cui ha partecipato il segretario americano Antony Blinken e per l’Italia il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

I grandi vertici politici internazionali hanno un unico scopo: suffragare fatti già noti con strette di mano e sorrisi e, quindi, assicurarsi che tutti abbiano capito quale deve essere la linea comune di comportamento nel breve periodo. Non dicono nulla di nuovo, ma soprattutto non risolvono mai nulla: semplicemente sono l’occasione per darsi ordini. È di nuovo accaduto ieri, con il grande vertice dei ministri degli Esteri e segretari di Stato a Roma su Daesh, la minaccia di quel che è stato territorialmente lo Stato Islamico del Califfo al-Bagdadi e che ancora è presente, come progetto ma soprattutto come cultura, non solo nel Vicino Oriente. Dopo anni di silenzio, Daesh-IS è tornato ad essere, per costoro, la grande minaccia, quasi un’urgenza vitale per l’Occidente. Leggo i comunicati, i rapporti ufficiali, le interviste, anche di colleghi analisti, e mi risulta chiaro, ancora una volta, quanto il ‘resuscitare’ minacce e riproporle con urgenza vitale alle ansie dell’opinione pubblica sia solo funzionale a interessi altri, soprattutto di politica estera.

A Roma, la “resurrezione” del Daesh-IS

Non è una novità, ed è quasi ingenuo ribadirlo. Eppure, ho sufficiente esperienza per aver visto nascere gravi minacce alla stabilità, alla democrazia, ai diritti umani, da cui azioni eclatanti anche come guerre infinite, per poi ritrovarsi a punto e a capo, se non peggio. Basti pensare all’Afghanistan e alla minaccia dei talebani; alla lunga guerra al terrore, dopo l’11 settembre di esattamente 20 anni fa, da cui un inconcludente intervento in Iraq, nel 2003, perché ora quel nemico ha cambiato sigle e protagonisti, si è incattivito e soprattutto si è radicalizzato, come ideologia ed anche fisicamente in vaste aree geografiche.

A Roma è resuscitato Daesh-IS perché è funzionale alla politica e giustificativo degli interventi militari ‘occidentali’, come quelli statunitensi già in corso nel nord della Siria-Iraq, in risposta come rappresaglia di precedenti attacchi di milizie sciite a proprie installazioni. E sicuramente anche per molti altri che verranno, anche in Africa. Ma quanto c’entra Daesh? È altro, infatti. Ora si tratta di finire il lavoro iniziato anni fa, quello di bloccare il progetto di Mezzaluna sciita di Teheran, lungo tutto l’asse Iran-Iraq-Siria, con quella costola di parte del Libano filo-iraniano gestito dagli Hezbollah, allo stremo per una grave crisi economica.

Che l’Iran sia una minaccia alla stabilità della regione è sicuramente una parte significativa del problema, ma il resuscitare la minaccia militare jihadista non è la soluzione. Soprattutto se è quella salafita-sunnita di Daesh-IS che nella sua azione offensiva militare, quand’anche riuscisse a riorganizzare la sua forza di 60mila uomini – stima affermata con sicurezza ieri, e comunque chiediamoci da dove arrivano fondi e armamenti per mantenere costoro e la loro minaccia eversiva a lungo – ha nei nemici sciiti e le loro milizie lo stesso obiettivo militare strategico. Daesh può essere allora una minaccia interna al mondo occidentale?

Il giochino di che cosa spaventa di più in Occidente

L’ultimo rapporto Terrorism Situation and Trend Report dell’Europol sottolinea la costante del rischio jihadista in Europa con 14 casi nel 2020 (erano 24 del 2018), un numero pari a quelli di matrice etno-nazionalista e separatista, ma di molto inferiore a quei 25 di ispirazione anarco-insurrezionalista. In Europa, come negli Stati Uniti, la minaccia terroristica ha, quindi, altri colori, e sarebbe anche ora che se ne prendesse atto. Allora diciamocela tutta: Daesh è lo spunto per altro. La minaccia Daesh-IS certamente attrae perché spaventa di più. La sua minaccia esiste perché è una cultura alla violenza che corre soprattutto on line, adesca e radicalizza giovani, anche quelli nati e cresciuti in Occidente. Li incita a un jihad locale, stimolando il loro desiderio di ricerca identitaria, là dove la religione estrema radicale diventa ragione di vita e di morte, anche propria, perché un attentato suicida è sempre vissuto come un martirio in virtù di un proprio riscatto, famigliare e sociale. I giovani radicalizzati non andranno, quindi, a combattere sui fronti caldi dei conflitti per il jihad, ma potrebbero colpire in Europa.

Ma la risposta militare occidentale laggiù, nel Vicino Oriente o addirittura nell’ Africa subsahariana, non è una soluzione valida ed efficace per contrastare tutto questo. Al contrario, alimenta quei desideri di riscatto e rinvigorisce l’astio verso l’Occidente che ieri, a Roma, ha dimostrato ancora una volta la propria inadeguatezza, ad essere cortesi, se non ipocrisia. Come risultano superficiali e faziose – ma non potrebbero essere altrimenti – le dichiarazioni di Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, secondo cui Daesh in Medio Oriente agisce in clandestinità. Daesh, di fatto, controlla 5 o 6 enclavi, anche se in zone remote e desertiche di circa 4mila km quadrati, aree periferiche, lasciate da decenni ai margini dello sviluppo economico e sociale. Ma controllerebbe anche parte della provincia orientale siriana di Deir-ez-Zor: un’area contesa da Stati Uniti, che appoggiano i curdi, e Russia che, a sua volta, sostiene i miliziani iraniani. E non a caso, l’area contesa è ricca di pozzi petroliferi.

Contrastare chi finanzia e arma il jihad

Daesh non è per nulla clandestina, ma è oltremodo visibile e sfacciata nella sua prepotenza, perché in tutte queste zone Daesh ha istituito la hisba, la polizia religiosa che controlla il rigoroso rispetto della sharia; si impone sui leader tribali ordinando loro di dimettersi dai consigli provinciali (curdi) e di non avere rapporti con emissari curdi o stranieri, altrimenti rischiano la pena di morte. Daesh ha ripreso a taglieggiare le attività commerciali e artigianali per autofinanziamento. Ma soprattutto Daesh controlla totalmente il campo profughi siriano al-Hawl, là dove 62mila persone, fra ex-combattenti IS, foreign fighters e loro famigliari – che i propri Paesi d’origine abbandonano o tentennano nel riprenderseli e processare – vivono quotidianamente in una sorta di piccolo Califfato, una realtà votata alla sharia, all’educazione islamista più radicale dei loro figli (27mila) con l’immancabile alza e ammaina bandiera quotidiana con sottofondo i nasheed, le musiche e i canti inneggianti il jihad.

È l’educazione al jihad che fa più vittime ora e crea carnefici per il domani, più che una improbabile minaccia militare di quello che fu lo Stato Islamico. Ciò avviene da almeno 2 anni e quell’Occidente riunito ieri a Roma lo sa perfettamente. Ed è proprio l’educazione e il richiamo jihadisti come alternativa di vita, a volte unica forma di sostentamento per migliaia di giovani, dal Vicino Oriente all’Africa, quella che deve spaventare l’Occidente, soprattutto l’Europa. Allora le soluzioni stanno veramente altrove. Nel definire e contrastare chi finanzia e sostiene tutto ciò che è jihad, in quelle regioni come in Europa, perché 60mila combattenti necessitano di supporto in denaro, logistico e di forniture militari.

Combattere a suon di sanzioni economiche, blocchi commerciali e di commesse industriali, chi finanzia e chi diffonde quella cultura sarebbe più vantaggioso per tutti e più risolutivo che intervenire militarmente, se imparare dai propri sbagli bellici come l’Afghanistan, l’Iraq, per non parlare della Libia, ha veramente un senso. Ma occorre strategia a lungo termine, occorre coraggio perché coinvolge soprattutto intoccabili, come la Turchia, membro della Nato, formidabilmente armato da essa e dalla Russia per propria iniziativa, e il Qatar, con tutto quanto ruota intorno a commesse industriali militari anche con l’Italia. Ma allora, ancora una volta, i vertici internazionali di che cosa stanno parlando?




Posted on: 2021/06/29, by :