La strage di via D’Amelio e la morte del generale Maletti

di Menandro|

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Non è naturale, né spontaneo associare il ricordo del 19 luglio 1992, la morte del magistrato Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta per mano mafiosa, alla scomparsa del generale Gianadelio Maletti, prossimo a compiere 100 anni, avvenuta in Sudafrica, paese di cui aveva preso la nazionalità negli anni Ottanta, dopo essersi rifugiato per sfuggire alla Giustizia italiana che l’aveva condannato per favoreggiamento nel processo sulla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969). Si tratta di episodi, per la distanza morale ed etica che differenzia i due personaggi, apparentemente incongrui tra di loro. Ma a ricordarci il tratto in comune, e lo ha fatto con estrema sensibilità e intuito, Giovanni Bianconi, inviato speciale de Il Corriere della Sera, in chiusura stamane della trasmissione radiofonica su RadioTre “Prima pagina”, di cui è conduttore per l’intera settimana. Un passaggio il suo, che abbiamo interpreto come un doveroso invito a proseguire la riflessione su quell’accostamento che non deve sembrare fuori posto o blasfemo.

Depistaggio è il tratto che unisce l’attentato a Paolo Borsellino, il più caro amico di Giovanni Falcone, in cui morirono anche cinque agenti della sua scorta, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, al generale Maletti, alto ufficiale dell’Intelligence, responsabile negli anni Settanta del Reparto D (controspionaggio) dei Servizi segreti militari, è una semplice parola: depistaggio, cioè una costante nella storia del nostro Paese. Depistaggio che accompagna non soltanto le stragi più cruente ed efferate dal Secondo dopoguerra ad oggi, ma anche la nostra vita quotidiana che si misura con scandali piccoli e grandi, in cui quelli piccoli si depistano per alterarli e renderli il più possibile incomprensibili e dunque incredibili e inattendibili, mentre per quelli grandi la tecnica del depistaggio mira a ridimensionarli o a spostare l’attenzione su altri aspetti secondari o peggio, come nel caso dell’omicidio di Paolo Borsellino, per il quale sono stati dati in pasto all’opinione pubblica, e per più lustri, colpevoli fasulli, lasciando in sospeso allarmanti zone d’ombra, rischiarate con cronometrica precisione da ricostruzioni di fantasia, prive dei necessari riscontri per chi indaga.

Le generazioni più giovani sanno poco o nulla del generale Maletti, classe 1921, una solida ed eroica tradizione famigliare nelle Forze armate, che in materia di depistaggio ha reso onore al suo ruolo di spia. L’avesse fatto soltanto in nome e per conto della democrazia e nell’interesse della Repubblica italiana, avrebbe meritato più di un’onorificenza dell’unica che, all’opposto, gli è stata revocata per la condanna. Invece, Maletti aveva il “vizio” del gioco. Non che amasse i tavoli verdi dei casinò (almeno che si sappia), ma gli piaceva rimescolare le carte su più tavoli del contorto gioco dello spionaggio; più tavoli, troppi e incompatibili per la sicurezza dello Stato e dei suoi cittadini: neofascisti, golpisti, piduisti, subalternità a servizi stranieri. Di ognuno, Maletti riferiva soltanto un pezzo, il più conveniente a suo insindacabile giudizio, che coincideva puntualmente con gli interessi di chi tramava contro lo Stato. Interrogato nel 1997 dalla Commissione d’inchiesta parlamentare che si era recato a Johannesburg, Maletti rispose a tutte le domande che gli vennero poste dal presidente della Commissione Pellegrino e degli altri parlamenti al seguito. Su stragi, strutture parallele come Gladio, rapporti con la Mia, “incidenti” mortali eccellenti, rapporti con politici e partiti, il suo fu come un silenzio assordante. O meglio, si limitò a confermare ciò che era già noto agli inquirenti, alla magistratura, alla Commissione d’inchiesta e all’opinione pubblica sulle stragi e sul terrorismo. In altri termini, continuò a promuovere il suo personalissimo depistaggio come verità autentica. Ciò che si chiede, in fondo ad una spia, infedele.




Posted on: 2021/07/19, by :