Infibulazioni e altri orrori: quanti scempi sui corpi delle donne

di Maria Grazia Cavallo |

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La notizia nella sua drammaticità è scarna. Siamo a Piacenza, in un giorno di settembre: un padre torna dalle vacanze nelle sue terre d’origine, ove ha fatto infibulare le sue figlie all’insaputa della loro madre. Ma la donna lo denuncia. Questo gesto è l’unico punto di luce in tutta la dolorosa vicenda.

Il gesto del padre tecnicamente appartiene alla categoria dei “reati culturalmente motivati” o “culturalmente orientati” che sono definiti con l’acronimo “MGF”, mutilazioni genitali femminili. L’acronimo, che sa di eufemismo, non trasmette però nella sua interezza l’orrore di quanto dovrebbe indicare, né può restituire il disgusto, lo sconcerto impotente, l’inorridita repulsione di chiunque si accosti a ciò che dovrebbe descrivere.

Effettivamente, quando si tratta di “MGF” ci si affaccia ai bordi di mondi segreti e di brutalità praticate ancora oggi sui corpi delle donne: violenze indescrivibili e insopportabili, che si tramandano da tempi così risalenti da renderne oscure le origini. Si tratta di pratiche orrende, ancora diffuse in alcune società tribali dell’Africa, nel Sudan, in Somalia, in Egitto, presso alcune società del sud-est Asiatico e della penisola Araba.

Affacciarsi su voragini di orrore

Quando ci si affaccia ai bordi di tali segreti, si apre una voragine sull’orrore. Scempi inimmaginabili su bambine e giovani donne in età fertile; su “femmine” già culturalmente sottomesse, alle quali una orrenda tradizione misogina e proprietaristica – del corpo e della mente delle donne – continua ad infliggere ulteriori sofferenze fisiche e psichiche. Si tratta di violenze ancora più gravi – se ipoteticamente dovessimo stilare un’assurda graduatoria fra le crudeltà più infami e le umiliazioni più dolorose, sulla base delle loro caratteristiche – perché devastano irreversibilmente le parti più intime e protette di quelle creature. Orrori destinati a restare indimenticabili perché si rinnoveranno di continuo nel futuro di quelle donne, in ogni momento della loro quotidianità; ad ogni movimento delle loro gambe che non sia più che contenuto e controllato; ad ogni mestruazione, ad ogni doloroso rapporto sessuale, ad ogni gravidanza, ad ogni parto.

In particolare le gravidanze ed i parti saranno particolarmente a rischio di infezioni e di morte per le madri o per i figli. Al momento del parto, le donne “tagliate” e poi “cousues” – così vengono chiamate quelle che hanno subito le mutilazioni genitali più invalidanti, con la ricucitura di lembi di carne precedentemente tagliati – dovranno essere tempestivamente “deinfibulate” per consentire la nascita del bambino. Mentre i loro figli rischieranno a nascere fra percorsi ostruiti; fra carni non più elastiche, devastate ed indurite dalle ferite di precedenti cuciture e ricuciture.

Tradizioni ataviche che resistono e distruggono corpi e menti

Quanti scempi sui corpi delle donne così preziosi per la vita e così fragili da meritare, invece, protezione e rispetto; corpi così esposti a non punite o tollerate violenze. Corpi ridotti oscenamente a luoghi di sofferenze interminabili. Probabilmente queste violenze non derivano da matrici religiose. Nessun credo – almeno a livello teorico – sembra esser fonte di precetti in tal senso. Dunque, questa specifica materia non sembra campo privilegiato di analisi per la teologia. Infatti, tali rituali violenti sembrano trovar radici in tradizioni ataviche, non ancora scardinate. Il fenomeno richiede, dunque, un approccio di studio multidisciplinare da parte di antropologi, di etnopsichiatri, di psicologi, di mediatori culturali, di sociologi, di storici, di medici e di giuristi.

E prima ancora impone, indifferibilmente, un forte e costante impegno politico a contrastare queste specifiche violenze. Le quali – pur stigmatizzate da Convenzioni internazionali e vietate dai vari sistemi penali – continuano evidentemente ad essere tollerate, a mancare fra le prime voci delle agende politiche internazionali e nazionali, così come chiedeva e continua a chiedere Emma Bonino. Non ci si può “voltare dall’altra parte”, rassegnati all’impotenza dei singoli nei confronti di problemi troppo complessi, troppo incomprensibili, troppo radicati nella storia ed altresì troppo distanti dalle nostre evolute civiltà occidentali.

Responsabilità e doveri della politica

Ogni problema locale – per quanto culturalmente e territorialmente distante da noi e dalla nostra mentalità – deve diventare nostro; e non soltanto per dovere etico, ma anche perché le nostre civiltà diventeranno sempre più multiculturali, com’è giusto e naturale che sia. Occorre quindi che la politica, i media, le intelligenze più impegnate delle società più emancipate, gli insegnanti, i corpi sociali, i cittadini si impegnino a diffondere la consapevolezza che questi drammi esistono e che stanno emergendo – quando fortuitamente emergono dalla segretezza dei riti – anche in Europa, attraverso i movimenti dei Popoli. Al contempo deve passare il messaggio che le tradizioni ed i pregiudizi contro le donne possono e devono essere energicamente, irreversibilmente sradicati partendo da una incessante opera culturale, facilitata oggi dalle opportunità offerte da un sistema mediatico mai così capillare prima d’ora.

Occorrerà in primis trovare le parole più chiare ed esplicative per far capire di cosa stiamo parlando. Se l’acronimo MGF – nella sua, per così dire, elegante neutralità estetica – non rende l’idea, anche i riferimenti a “motivazioni” e ad “orientamenti culturali” rischierebbero di essere fuorvianti, qualora suggerissero inaccettabili letture giustificazioniste in nome delle diverse culture introiettate nei paesi d’origine (come è avvenuto in passato, anche se per reati assai meno gravi ). La pur corretta qualificazione di tali gravissimi atti come “reati culturalmente motivati” od “orientati” rischia di essere fuorviante proprio per il richiamo ad orientamenti culturali ed a motivazioni.

Sarebbe importante – per chiarezza di comunicazione – evidenziare che questi reati gravissimi configurano violazioni dei diritti e delle libertà fondamentali della persona. Altro eufemismo ricorrente è la definizione di “circoncisione femminile”, come se si trattasse di pratiche che trovano il reciproco nella “circoncisione maschile”. Questa complessiva terminologia – che dà l’idea di simmetria – è assolutamente inappropriata, poiché non trova riscontro nella realtà. Si tratta infatti di interventi sul corpo delle donne o degli uomini assolutamente diversi nella lesività immediata e nelle conseguenze future Gli strumenti sono lamette, ferri, pezzi di vetro, attrezzi rudimentali che potrebbero provocare infezioni o morte per dissanguamento.

Lesività , devastazione, rischi presenti ed esposizione costante a rischi futuri, compromissione funzionale per sempre, sofferenze fisiche e traumi psicologici per sempre . Queste sono le differenze che la banale , semplicistica distinzione di cui stiamo parlando – fra “circoncisioni” distinte per generi – non descrive, come spiegheremo nelle prossime righe. Ed allora è bene parlare con chiaro riferimento alla realtà che si nasconde ( è proprio questo il verbo da usare ) dietro eufemismi o tecnicismi od inappropriate categorizzazioni. Anche a costo di usare – con tutta la delicatezza possibile – parole crude.

La falsa “simmetria” tra uomo e donna

Stiamo parlando di pratiche dolorosissime, di riti iniziatici consumati in segreto ,di sofferenze inflitte “a crudo” nelle parti più intime di bambine e giovani donne. “A crudo” significa, assai spesso, “senza anestesia”. Ma anche, in senso traslato, “a sorpresa”, senza che le bimbe e le ragazze abbiano la possibilità di immaginare o sapere, fino all’attimo prima, quale scempio indimenticabile andranno a subire. E, sempre in senso traslato, “a crudo” potrebbe significare, per loro, il trovarsi spiazzate, incredule, inorridite, traumatizzate nel vedere quanta violenza verrà loro inflitta – incomprensibilmente – dalle donne di famiglia. Proprio da quelle che più amavano e da cui si sono sentite protette ed amate, fino a poco prima. Sì, perché le mutilazioni genitali femminili “sembrano” essere, da sempre, un “affare fra donne”. Sono madri, sorelle, zie, amiche e vicine di casa quelle che arrivano ad immobilizzare le poverette sui tavoli delle cucine, sui pavimenti, fra gli stracci per assorbirne il sangue. Sono loro tenerle ferme per sopportare quel dolore inesprimibile , incomprensibile, tanto violento e spiazzante da far svenire. E da cui lo svenimento è una fuga, ma soltanto provvisoria, da violenze ancestrali, tramandate attraverso generazioni di madri che le avevano a loro volta subìte e che, dunque, ben conoscono che cosa proveranno le loro figlie. Eppure, per quanto possa sembrare assurdo, quelle mamme accettano tali violenze sulle figlie per un malinteso sentimento d’amore e di onore nei confronti delle loro creature.

L’apparenza inganna: non sono soltanto “cose di donne”

In quelle sottoculture – credo che si debba assolutamente usare questo termine – certe orrende pratiche (vi è una vasta diversificazione) costituiscono una sorta di rituali di “purificazione” che consentiranno alle “tagliate” di poter essere accettate dalla società; di poter andare (o essere offerte) in spose, proprio perché “purificate” dalle tentazioni del sesso. Che per quelle donne sarà sempre associato a violenza e a dolore. Se non “purificate” – attraverso l’asporto di parte degli organi genitali e le ricuciture delle carni lacerate residue, con la riduzione al minimo degli spazi per poter espletare le funzioni fisiologiche, l’espulsione del flusso mestruale ed i rapporti sessuali – queste ragazze potrebbero andare incontro a disapprovazione ed emarginazione sociale. Dunque, se le mutilazioni genitali femminili “sembrano” essere, nel momento della loro attuazione, “cose di donne”, in realtà costituiscono l’offerta di corpi – e per più versi anche di menti – di donne, lesionati e assoggettati per sempre al dominio dei maschi.

Anche a distanza di anni, i racconti di donne che hanno trovato il coraggio di raccontare questi drammi, sono pieni di lacrime e di silenzi. Forse perché anche il non riuscire a “focalizzare” certi picchi di sofferenza e di umiliazione, l’acme dell’orrore e del disorientamento, potrebbe costituire anch’esso una sorta di “via di fuga” dal dolore. Sta di fatto che siamo qui a parlare, nel 2021, di un episodio che ci riguarda da vicino: ed interpella il nostro dovere di non smettere mai di proseguire nell’impegno a migliorare la vita delle donne, per migliorare quella del mondo intero.

Posted on: 2021/09/17, by :