Libano: emergenza umanitaria e crisi energetica. I tentacoli di Teheran sul Medio oriente

di Germana Tappero Merlo |

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È una sorta di guerra silenziosa, molto sofferta perché vitale quella che sta vivendo la popolazione libanese da più di un anno e mezzo: è quella per la faticosa sopravvivenza con forti limiti all’approvvigionamento di carburante e, quindi, di elettricità, perché poi, di fatto, in quel Paese, è la stessa cosa. Si sopravvive con 3 ore di elettricità al giorno, e tutto ciò che dipende dal carburante, e non solo le auto e i trasporti, ma anche i generatori privati – che da sempre soddisfano i bisogni quotidiani dei libanesi, perché dall’ente pubblico vengono dispensate giornalmente solo un paio d’ore – ormai tutto è pressoché spento. “Abbiamo dimenticato cosa significa elettricità”, è il commento più comune. Anche gli impianti negli ospedali sono operativi non più di due ore al giorno, addirittura con l’attività di interventi urgenti o salvavita, come la dialisi, la chemioterapia e quant’altro, pressoché paralizzata.

Blackout continui, come quello di ieri che ha rabbuiato l’intera Beirut, o incendi di cisterne di gasolio, come quello della notte scorsa nella struttura di Al-Zaharani, uno dei due principali impianti elettrici del Paese (l’altro è Deir Ammar, anch’esso sovente senza riserve), si ripetono frequentemente trasformando il Libano in un’entità sospesa, e i 6,8 milioni di cittadini senza energia pubblica, pressoché fantasmi. Di fondo vi è la più grave crisi economica e finanziaria di tutti i tempi, come già accennato in queste pagine qualche mese fa1, con tutto ciò che da anni ammorba il quieto vivere del Libano, ossia l’instabilità politica interna e la corruzione, oltre ad una forte ingerenza esterna, dapprima siriana ed ora iraniana. Secondo i rapporti dell’Onu, l’80% della popolazione è in povertà, con condizioni di vita peggiori rispetto ai quindici anni della guerra civile, terminata di fatto nel 1990, e dove, fra l’altro, furono sempre garantiti corrente elettrica, gasolio e benzina.

Ora, la popolazione libanese convive con un’iperinflazione che avvelena la loro quotidianità, con un tasso di cambio lira libanese-dollaro US che, se nel 2019 era di 1500 a 1, ora è di 18900 a 1, e con il drenaggio di dollari dal Libano le banche hanno chiuso i battenti e i prelievi sono contingentati. Il mercato nero dei cambi, quindi, furoreggia. Non manca anche quello per la benzina e il gasolio: la stessa Banca centrale libanese punta il dito contro il mercato illegale e il contrabbando di carburanti verso la Siria, là dove, peraltro, benzina e gasolio giungono in Libano tramite il gran daffare del gruppo paramilitare libanese filo-iraniano degli hezbollah.

L’emergenza energetica ha visto, infatti, l’Iran infrangere le sanzioni statunitensi (imposte da Trump dopo aver tirato fuori gli Usa dall’accordo sul nucleare) per rifornire di gasolio il Libano dal porto siriano di Bāniyās, attraverso la potente logistica degli hezbollah. E sono le stesse sanzioni che penalizzano la Siria e che ora impediscono a Beirut l’importazione del gas dall’Egitto attraverso quel Paese ancora in guerra. Ulteriore dimostrazione di come le sanzioni siano uno strumento efficace, ma da maneggiare con saggia e prudente cura per evitare effetti domino di grave instabilità anche per altre realtà che non si dovrebbero o non si vorrebbero coinvolgere.

Le spedizioni di gasolio organizzate dall’Iran e gestite dagli hezbollah segnano un’espansione del ruolo di questi ultimi in Libano là dove è chiaro, ai più attenti osservatori, il loro ruolo come Stato (e anche ben armato) in uno Stato dal governo debole e assente, ma che si vorrebbe ancora sovrano. E l’influenza iraniana è sempre più invadente, e non garba a tutti i libanesi. Per quanto disperati per la carenza di carburante, vi sono state parecchie manifestazioni contro “la benzina degli hezbollah”, dandone addirittura fuoco, come dimostrazione di non volersi piegare al dominio e al controllo dell’organizzazione filo-iraniana. È quel sussulto di orgoglio di un Paese multiconfessionale che non vuole cadere sotto il dominio di un solo credo religioso, manovrato a distanza, lontano due migliaia di miglia. Si cercano le alternative. La Turchia è intervenuta con forniture da sue chiatte al largo di Beirut; e l’Iraq, ottenute le conferme per il pagamento da una Banca centrale libanese ormai al collasso, ha promesso di rifornire il Libano a breve. Banca Mondiale e Fondo Monetario garantirebbero finanziamenti ma che, di fatto, non arrivano per mancanza di fiducia verso il governo libanese.

Ed ecco che ritorna l’Iran che ha facile gioco a imporsi, e per voce del suo ministro degli esteri, Hossein Amir-Abdollahian in visita ufficiale a Beirut (anche al leader degli hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah) promette di ricostruire il porto libanese ancora devastato dopo l’esplosione dell’agosto 2020, e due nuove centrali elettriche nel sud, al confine con Israele. La mano iraniana si allunga sempre di più verso quel territorio, e conta poco la celata disapprovazione del neonato governo di Najib Miqati che si è affannato a ribadire come quelle spedizioni dall’Iran-Siria siano una violazione della sovranità del suo Paese: se il governo è assente, hezbollah interviene, anche nel fornire beni di base, alimentando il consenso a proprio favore.

Eppure, c’è chi dissente; per ora pochi nel numero, ma con esponenti significativi, come Nadim Katish, un giornalista libanese noto per la sua opposizione, dura e risoluta, ad hezbollah. Sulla questione energetica si è così espresso in queste ore: “Invece di trasferire in Libano il gas egiziano mescolato con quello israeliano, passando attraverso la Giordania, così come l’elettricità giordana, che viene generata sempre attraverso il gas israeliano, il Libano avrebbe potuto riceverlo direttamente se solo ci fosse stato un accordo di cessate il fuoco e una dichiarazione di neutralità… o anche un accordo di pace”. Perché poi, di questo si tratta. Israele comunque supplisce, silenziosamente, tramite terzi, all’emergenza libanese: la volontà di collaborare fra i popoli della regione c’è, ma è sopraffatta dalle ambizioni di potenza regionale di numerosi soggetti. E il popolo libanese è solo l’ultimo esempio di chi ne paga duramente le conseguenze.