Storia della sanità, capitolo XXXVI: San Benedetto detta la Regola

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

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Nel XXXVI capitolo della Regola, dedicato agli infermi, si legge: “Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est, ut sicut revera Christo, ita eis serviatur (…) Ergo cura maxima sit Abbati ne aliquam negligentiam patiantur (…) Balnearum usus infirmis quotiens expedit offeratur – sanis autem et maxime iuvenibus tardius concedatur” (Degli infermi si deve aver cura prima di tutto e a preferenza d’ogni altra cosa, sicché davvero si serva a loro come a Cristo in persona (…). Quindi l’abate curi con somma attenzione che non abbiano a soffrire qualche negligenza (…) Si conceda loro l’uso dei bagni, tutte le volte che ciò si renderà necessario a scopo terapeutico; ai sani, invece, e specialmente ai più giovani venga consentito più raramente).

Per tutto il Medio Evo, si considerò inopportuno lavarsi troppo, per non intralciare la funzione dei pori (almeno evitò tante polmoniti). Infatti, l’uso dell’acqua per lavarsi era scoraggiato o addirittura vietato dai medici: l’acqua, secondo loro, apriva i pori della pelle attraverso i quali potevano entrare pericolose malattie. Se un bagno veniva concesso, era poi consigliato almeno un giorno di riposo a letto per recuperare il presunto indebolimento del corpo. Se proprio ci si doveva lavare, lo si faceva “a secco”, con crusca, sabbia e cipria. Alcuni sostituivano la pratica con il cospargersi le pelle con la cenere: furono gli Arabi a predisporre un sapone a base di soda caustica e soprattutto conservarono la tradizione romana dei bagni e delle latrine pubbliche.

La preminenza della medicina monastica

Nonostante l’antipatia verso l’acqua, le infermerie dei monasteri divennero sovente l’unico luogo destinato alla cura presente in vaste aree dell’Europa. L’autarchia prima, e poi il prestigio assunto dai monasteri, portarono inoltre a prestare grande attenzione alle visite mediche, cui venivano sottoposti i novizi prima d’essere ammessi. Per una famiglia di poveri agricoltori, poter consegnare nelle mani della Chiesa un loro figlio un po’ malaticcio, era un atto d’amore, oltre che di fede. Per l’importanza posta dallo stesso San Benedetto all’aspetto assistenziale (sempre nel XXXVI Capitolo della sua Regola, ricordava che la cura degli infermi fosse da porsi davanti e al di sopra di ogni altra occupazione, comprese quelle di carattere liturgico) e per i risultati raggiunti in molti monasteri si può parlare di una vera e propria medicina monastica, che permise di conservare e, in molti casi, approfondire le conoscenze sulla materia, oltre ad elaborare un sistema sanitario codificato e diffuso, che si estese per gran parte dell’Europa. A riprova dell’importanza raggiunta dalla medicina monastica è sufficiente ricordare la farmacopea sviluppatasi a Montecassino (nota anche per la produzione di birra, la prima ad essere prodotta in Italia) che all’epoca non era utilizzata come bevanda, ma come tonico), Farfa, Furda, Casamari, San Galgano (dove operavano almeno cinque monaci qualificati con il titolo di “medicus”), Fossanova e Camaldoli ed, ovviamente, il primo dei monasteri fondati da San Benedetto, quello di Subiaco, dedicato inizialmente a due Santi medici, Cosma e Damiano e, in seguito, a Santa Scolastica.

La rappresentazione simbolica del Paradiso

È proprio nei monasteri che si affermano le prime figure di “specialisti” dell’epoca moderna e le prime produzioni di piante medicamentose. Superata la fase della raccolta, i monaci s’industriarono in coltivazioni che presero il nome di botanicum herbarium e poi hortus botanicus, poi diventati nel Rinascimento, “l’orto dei semplici”, o “giardino dei novizi”. I monaci si appassionarono nel coltivare i cosiddetti Hortuli dei semplici (quasi esclusivamente dedicati alle piante medicinali) adiacenti il monastero, tant’è che riuscirono addirittura a sopportare la concorrenza dei preparati che arrivavano dal Nuovo Mondo e a quella, potremmo definire in house, delle monache, sempre molto attente all’alimentazione quotidiana. Tanta attenzione si tradusse anche negli strumenti di supporto: il vasellame e i mobili presenti nelle antiche farmacie conventuali costituiscono, ancor oggi, oggetti tra i più ricercati degli antiquari.

I giardini conventuali associavano il bello, espressione della spiritualità, al buono, quale capacità di autoaffermazione dell’uomo. La stessa forma e l’ordine delle coltivazioni finirono per disegnare una rappresentazione simbolica del Paradiso. Al centro ovviamente la fonte della vita: l’acqua viva, normalmente rappresentata da una fontana o in alternativa un albero della vita. Lo spazio circostante era normalmente rotondo per rappresentare l’immensità e l’eternità di Dio; intorno, si estendevano quattro aree rettangolari o quadrate, smussate su un angolo (per adeguarsi all’area circolare), rappresentanti lo scorrere della vita terrestre con le sue quattro stagioni.

Figurativamente i quattro viali rappresentanti i quattro fiumi dell’Eden che hanno la loro origine dalla fonte e poi si dirigono verso i punti cardinali, verso cui si allungano le braccia. All’interno di ogni appezzamento rettangolare si coltivavano salvia, rucola, iris, erisimo, cumino, finocchio, levistico, fagiolo, santoreggia, menta, rosmarino, balsamita major, trigonella, ruta, arnica, ortica, genziana, assenzio, valeriana, stramonio, gramigna, l’equiseto, lavanda, e mille altre ancora. Non mancava ovviamente la coltivazione dei fiori indispensabili per decorare gli altari, oltre che per rendere piacevole il passeggiare nel chiostro.

La raccolta di erbe e piante a fini terapeutici

L’utilizzo delle erbe fu l’elemento essenziale della medicina monastica per predisporre un sistema di cure. All’interno dei monasteri s’individuò uno o più locali per trattare e per tenere in serbo le erbe medicinali ritenute idonee per curare le malattie. I monaci divennero esperti nel selezionare e nel raccogliere nella stagione giusta diversi tipi di erbe, radici, foglie o bacche. Per ognuna di queste “materie prime” si procedeva con appositi processi basati sulla differenziazione delle modalità di essiccazione, di riduzione in briciole, di cottura per infusi etc. In particolare, per poter sfruttare le potenzialità terapeutiche, si facevano fermentare le erbe, per renderle conservabili grazie al contributo alcolico.

Rimane da definire se prevalse, tra i monaci, la tendenza a lavorare in équipe oppure se ognuno di loro tendesse a richiudersi nel suo piccolo laboratorio e, tra una preghiera e l’altra, tra un alambicco e un mortaio, e con un gran uso di fornelli, procedeva a preparare i suoi medicamenti, senza farlo sapere ai suoi confratelli, tanto meno al novizio che gli veniva affidato. La “gelosia” per i dati prodotti nei laboratori darà origine ad un’altra diatriba: quella sulle modalità di comunicazione dei risultati al paziente…




Posted on: 2021/10/13, by :