Punture di spillo: il lavoro ostaggio di cunei e di quote

a cura di Pietro Terna|

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Le riforme sociali introdotte dal cancelliere tedesco Otto von Bismark negli anni Ottanta del XIX secolo coprono i campi della malattia, degli infortuni e della vecchiaia. Rigido conservatore, fu accusato di socialismo; si legge che affermò che non gliene importava nulla. Forse più che da buoni sentimenti era ispirato dall’intelligenza politica che sta nell’anticipare le risposte piuttosto che cedere alle richieste.

La speranza media di vita nella Germania di fine ’800 era di 35 anni per gli uomini e 38 per le donne; in Italia, al 1° gennaio 2021, per gli uomini è di 79,7 anni (1,4 anni in meno dell’anno precedente), mentre per le donne è 84,4 anni, un anno in meno. La caduta della speranza media di vita dovrebbe far capire ai negazionisti della pandemia che in realtà qualche cosa è successo, a meno che sia già l’effetto del 5G prima ancora di essere introdotto… Torniamo alle pensioni: con Bismark1 si andò in pensione a 70 anni, il doppio della speranza media di vita. Un po’ come se ora si proponesse di andare in pensione a… 160 anni (niente paura, non lo propongo). Però non stupiamoci per la pensione a 67, che è la base dell’ultima riforma organica della previdenza, introdotta dal governo Monti, sotto la pressione – allora imperiosa – di chi doveva garantire o sottoscrivere il nostro debito pubblico.

Ora discutiamo di quota 102 o 102,5 o 103, serve a prendere tempo, lo si capisce, ma si tratta di regole insufficienti in prospettiva. Mi esprimo con la massima brutalità, ma per farmi capire: chi va in pensione riceverà il suo reddito mensile da trasferimenti, provenienti da prelievi su lavoratori (troppo pochi in Italia) e imprese, da imposte in genere, da generazioni future, se si fa ricorso al debito; un minuto prima di andare in pensione, il suo reddito derivava dalla produzione. Chi obietta che il contributo di un pensionando alla produzione è modesto, sottovaluta il ruolo dell’esperienza nel lavoro e in ogni caso la capacità di chi organizza l’impresa.

Il problema di fondo è duplice: non far troppo pesare la spesa pensionistica sullo Stato, al punto da arrestare gli investimenti per il rinnovamento della nostra società e della nostra economia, compreso il funzionamento dello stesso sistema pubblico; assicurare sufficienti risorse per indirizzare il nostro sistema economico verso il futuro, favorendo la ripresa degli investimenti produttivi. Ecco il problema centrale, che certamente Draghi ha chiarissimo.

In questi stessi giorni stiamo anche discutendo nuovamente a proposito del cosiddetto cuneo fiscale e contributivo: manca un atteggiamento forte del sindacato, che sappia dichiararsi a favore, certo comprendendo anche vantaggi diretti per i lavoratori.

Infine, l’urgenza del tema dei giovani2 e delle loro future pensioni: se non si investe e non si originano incrementi di competitività, la loro pensione non è un problema di rinvio, ma di esistenza! Tutto si tiene, in un complesso coacervo di scelte.

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