Etiopia, la guerra ignorata: 150 mila vittime e oltre 2 milioni di sfollati

di Germana Tappero Merlo |

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E pensare che proprio un anno fa erano iniziati come un problema di ordine interno: ora, gli scontri in Etiopia, fra il governo centrale di Addis Abeba del primo ministro Ahmed Ali Abiy e le forze ribelli del Tigrai (Fronte di liberazione del popolo del Tigrai, FLPT) è diventata guerra aperta, con questi ultimi a poche centinaia di chilometri dalla capitale, quasi una facile conquista, sebbene le cifre raccontino altro. Sono cifre inimmaginabili, proprio se riferite ad un anno fa: 150mila morti (di cui 50mila civili), 2milioni e 200mila sfollati, 60mila rifugiati in Sudan, oltre 5milioni di persone che necessitano di assistenza alimentare, a cui si aggiungono violenze, atti di vero e proprio genocidio, stupri, devastazioni di strutture agricole, magazzini e ospedali. Non era difficile immaginare questa deriva,1 nonostante i toni rassicuranti di Abiy che, il 4 novembre 2020, affermava che quell’operazione militare, affinché “l’erbaccia – diceva – venga rimossa dal nostro Paese”, non avrebbe coinvolto nessun civile e sarebbe durata al massimo cinque giorni.

Ahmed Ali Abiy
Ora, invece, l’evoluzione, i dati e i protagonisti di quel conflitto mostrano tendenze sistemiche emergenti in quel continente, come la sempre più frequente disintegrazione dei suoi più grandi Stati e le lotte per la gestione di quei complessi paesaggi multietnici che li compongono. Ebbene sono molto più che campanelli di allarme per la sicurezza internazionale.

Territori ricchi di materie prime e appetibili all’esterno

Ma procediamo con ordine, per quanto possibile per uno scenario decisamente molto complesso e ignorato. Innanzitutto quello fra Tigrai ed Etiopia è un conflitto interetnico non solo interno, ma anche intra-statale, dalle implicazioni regionali e internazionali. Le rivendicazioni dei tigrini, un misto di accuse di brogli elettorali e desiderio di riprendersi il controllo del Paese dopo averlo governato per decenni, sono affiancate da considerazioni di carattere geopolitico ma anche economico, essendo il Tigrai una regione ricca di minerali e giacimenti di pietre preziose. Da qui, gli appetiti esterni.

L’instabilità etiope si è di fatto estesa, come un’onda lunga, a tutta la regione, mettendo a rischio gli equilibri già fragili: il coinvolgimento della vicina Eritrea; gli scontri fra Etiopia e Sudan per via dei flussi di profughi che ha riacceso la disputa per il territorio conteso di al Fashaga; tensioni e scontri con la vicina Gibuti. A fianco delle truppe regolari etiopi nel Tigrai sono infatti presenti truppe eritree, acerrime nemiche dei tigrini quando, come gruppo etnico al potere, dal 1998 al 2000 gli eserciti etiopi ed eritrei si confrontarono duramente per questioni frontaliere. Una conflittualità che ha poi trovato uno stallo di relazioni fra i due Paesi sino al 2018 e all’accordo che ad Abiy è valso il premio Nobel per la Pace nel 2019.

Ebbene, ora, il governo etiope, per contenere quella che sperava rimanesse una rivolta interna, ha utilizzato la compagnia aerea di bandiera per il trasporto di armi da e verso l’Eritrea, in modo da accerchiare i ribelli tigrini da nord e sud: bloccati gli aiuti umanitari verso il Tigrai e ripresa dei bombardamenti aerei, il conflitto è diventato così intra-statale. Sono iniziate infatti incursioni con violenze da parte di eritrei verso i civili etiopi, in particolare le donne tigrine vittime di stupri, ormai arma di guerra di massa, a conferma delle previsioni lanciate da Abiy che “le madri avrebbero pianto e le case sarebbero state distrutte”. Ma Abiy aveva fatto male i suoi calcoli.

L’intervento dell’Esercito di Liberazione degli Oromo

La brutalità impiegata dalle forze regolari etiopi ed eritree contro i ribelli tigrini e la loro gente ha innalzato il livello dello scontro, ha richiamato alla resistenza tutto quel popolo al punto che il TPLF si è ricostituito e ri-energizzato, riuscendo così, dalla fine del giugno scorso, a compiere una serie di rapide offensive e respingere le forze regolari, sino alla riconquista di città strategiche, come il loro capoluogo Macallè.

Le stesse forze del FLPT, che da decenni componevano la spina dorsale dell’esercito etiope e formate da persone altamente istruite, con un morale combattivo e una determinazione decisamente forti, il tutto unito a una disciplina pressoché inesistente nel resto delle forze regolari etiope, hanno poi ricevuto rinforzi dall’Esercito di Liberazione degli Oromo (OLA), una etnia rivale a quella del premier Abiy. L’alleanza militare TPLF e OLA è quindi riuscita a bloccare i collegamenti fra Etiopia e Gibuti, unico accesso al mare per Addis Abeba, con ripercussioni economiche non indifferenti per le casse statali.

Inoltre, milizie di Amhare e Afar, ossia di regioni limitrofe, si sono unite ai tigrini per promuovere i loro obiettivi irredentisti. Ma l’unione non è solo militare: FLPT, OLA e altri sette gruppi di opposizione hanno annunciato in queste ore un’alleanza di opposizione, per invertire “gli effetti dannosi di Ahmed Abiy e per una transizione sicura del Paese”. Ma la strada è ancora lunga.

La débâcle militare delle forze governative di Abiy è stata dovuta soprattutto alla sua arroganza, dettata da disprezzo etnico, che lo aveva portato, appena salito al potere, ad arrestare 17mila soldati e alti ufficiali solo perché di etnia Oromo: in un continente di facili colpi di stato, e con il loro passato di gruppo dominante, il neo Premier non si fidava di costoro, come nemmeno ha creduto nella sua tenuta a condurre un Paese che, con la sua economia, era simbolo del Rinascimento africano. Abiy ha creato così un precedente, e le lotte intestine fra etnie e clan rivali, all’interno delle forze regolari etiopi, si sono all’improvviso moltiplicate, minandone la compattezza e la tenuta, da cui i fallimenti sul campo. Ma a complicare il quadro etiope interno, non mancano attori esterni.

L’infruttuosa azione diplomatica della Casa Bianca

Le Nazioni Unite chiedono il cessate il fuoco e la mediazione fra le parti. Gli Stati Uniti, dopo la politica “dell’aspetta e vedrai” di Trump, a cui è seguita un’azione diplomatica a scopi umanitari dell’amministrazione Biden verso il Tigrai, da cui parole di fuoco di Abiy che ha accusato Washington di ingerenza in affari interni, è seguita la decisione US di evacuare il proprio personale. Gli sforzi della diplomazia internazionale sono comunque arrivati troppo tardi e, peggio, con fallimenti nella mediazione perché non vi è un’adeguata conoscenza della complessità nelle tradizioni, nella cultura e nei rapporti intra-tribali di un’Etiopia in cui la trasparenza relazionale è merce rarissima.

L’Unione Africana, che potrebbe rappresentare un arbitro naturale al conflitto (“soluzioni africane ai problemi africani”, in un rigurgito di pan-continentalismo, di fatto inesistente) non riesce a utilizzare i suoi due elementi operativi progettati per questi scenari, il Continental Early Warning System, istituito nel 2010 proprio per rilevare e verificare crisi per la sicurezza africana, e l’African Standby Force, ossia una forza militare allineata a livello regionale “per consentire agli africani di rispondere rapidamente a una crisi”. Su tutto ciò pesano divisioni interne al continente, ma soprattutto forti ingerenze esterne.

L’ingerenza massiccia di Pechino e gli appoggi di Russia e Turchia

Prima fra tutte, la Cina. È considerata di fatto la responsabile del fallimento degli sforzi di pace in Etiopia per via dei suoi veto a risposte significative alla crisi che si sarebbero potute avviare in ambito Onu, perché Pechino è il più grande partner economico, commerciale e investitore dell’Etiopia, doppiando addirittura gli Stati Uniti. La Cina detiene oltre la metà del debito estero etiope e dal 2000 ha imprestato circa 14 miliardi di dollari ad Addis Abeba. Pechino non può che sostenerne la sovranità, chiunque sia al potere, opponendosi alle interferenze esterne di chi, “con la scusa e la retorica dei diritti umani”, mette mano a quel forziere fatto di prestiti già concessi, materie prime e minerali strategici.

Ma la Cina non è sola. Russia e India l’appoggiano, con i loro voti, in sede Onu, e la Turchia, evitando complicazioni da consessi sovranazionali, fa affari con Addis Abeba per forniture militari. Ad agosto, infatti, Abiy ha firmato un accordo di cooperazione militare con Erdogan, in visita ufficiale. Indiscrezioni di un accordo rimasto segreto parlano della fornitura di droni turchi Bayraktar TB2. Il governo etiope aveva già schierato droni cinesi ed iraniani nel conflitto con i tigrini: ma nessuno sarebbe efficace come i TB2 turchi, quegli stessi che avevano ribaltato il risultato dello scontro a favore dell’Azerbaigian nella guerra contro l’Armenia per il Nagorno-Kharabakh.



L’utilizzo “neutro” dei droni della mezzaluna turca

Prima ancora Ankara li aveva utilizzati contro i separatisti curdi turchi, ma anche contro quelli siriani e iracheni. Sono anche affari di famiglia, perché prodotti dalla Baykar Makina, il cui Chief Technology Officer è sposato con una figlia di Erdogan (affari di famiglia che per il presidente turco sono una prassi, mai l’eccezione). E poi costano un decimo dei Predator US, e Ankara ne sta distribuendo a chiunque ne faccia richiesta, in ultimo il Kirghizistan, dando il via a una proliferazione di droni che viene ipocritamente ignorata dalla comunità internazionale, nonostante i moniti degli analisti per la sicurezza.

Eppure i droni stanno veramente riscaldando i conflitti in molte regioni, soprattutto in Africa: quelle munizioni senza pilota abbassano la soglia della guerra. Come nazione si può essere condannati se le proprie truppe intervengono direttamente in un conflitto: non ci sono lamentele se invece quello stesso Paese, sia esso la Turchia, l’Iran o la Cina, rifornisce di droni una parte combattente. Non importa se poi, di fatto, secondo alcune testimonianze, sarebbero già oltre 30mila i giovani soldati etiopi, di entrambe le fazioni, per lo più mal addestrati e male armati che, pare, siano stati uccisi dall’inizio dell’offensiva dei droni del governo di Abiy. Eppure costui è anche un Premio Nobel per la Pace, un riconoscimento che ora è duramente messo in discussione. Anche i ribelli tigrini hanno le loro macchie: tuttavia, non possiamo non concordare con quanto affermato da alcuni osservatori che, se ci fosse un Nobel alla Guerra riservato ai leader del mondo, il premier Abiy partirebbe favorito2.

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1https://www.laportadivetro.org/letiopia-una-polveriera-per-il-corno-dafrica
2M. Farina, I ribelli puntano su Addis Abeba. Abiy minaccia: vi seppelliremo, Il Corriere della Sera, 5/11/2021.




Posted on: 2021/11/07, by :