Da che parte sta il governo Draghi?

di Stefano Marengo|

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I tecnici a Palazzo Chigi, si sa, non sono mai tali. Questo è particolarmente vero per Mario Draghi e il suo Governo, che da alcune settimane hanno ormai chiarito di non volersi discostare dall’ortodossia neoliberista. Un anno e mezzo fa, quando eravamo nel pieno della prima ondata della pandemia, molti avvertirono l’esigenza di un nuovo protagonismo dello stato dopo decenni di smantellamento dei servizi pubblici e di privatizzazioni massicce. Ancora di più, visto che la Covid stava mettendo impietosamente in luce tutti i limiti e le falle del nostro sistema socioeconomico, alcuni azzardarono la previsione di un nuovo keynesismo ormai alle porte, con le istituzioni pubbliche incaricate di regolare e indirizzare l’economia e di agire come attori economici diretti. A mio avviso, queste speranze possono essere archiviate.

L’approvazione in Consiglio dei Ministri del Ddl Concorrenza, avvenuta la scorsa settimana, dimostra che il Governo non cambierà rotta rispetto al modello di sviluppo “ereditato”, ma al contrario estenderà ulteriormente l’applicazione delle ricette neoliberiste, rendendole ancora più vincolanti. Quella che si profila, infatti, è una nuova ondata di privatizzazioni dei servizi pubblici, dalla gestione idrica alla raccolta rifiuti, passando per il trasporto locale, la sanità e, in definitiva, gli ambiti di intervento individuati dal Prrr. L’imperativo è quello di esternalizzare, ossia affidare a privati l’organizzazione ed erogazione dei servizi, nella convinzione che il mercato sia di per sé capace di garantire la loro efficacia ed efficienza.

È da notare, in effetti, che oggetto della privatizzazione non è la “proprietà” di asset pubblici, ma la loro gestione. Si tratta di un’applicazione da manuale del cosiddetto New Public Management (NPM), un modello di governance che si affermò negli anni Ottanta sotto l’egida dei governi britannici guidati da Margaret Thatcher e che si caratterizza essenzialmente per due aspetti. In primo luogo, la valutazione delle politiche “pubbliche” viene ridotta con il NPM alla sostanza del risultato economico, dando un peso scarso o nullo ad altri aspetti, come, ad esempio, le ricadute in termini di benessere sociale. In secondo luogo, perseguendo l’esternalizzazione come proprio fine strategico, il New Public Management si configura come una vera e propria leva pubblica per l’accumulazione di ricchezza privata. Tale è lo scenario tracciato dal Ddl Concorrenza.

Se l’orientamento non fosse ancora abbastanza chiaro, si può leggere quanto scrive il governo stesso a proposito dei servizi comunali, ossia che la nuova misura intende “razionalizzare il ricorso da parte degli enti locali allo strumento delle società in house, anche attraverso la previsione dell’obbligo di dimostrare, da parte degli enti medesimi, le ragioni del mancato ricorso al mercato, dei benefici della forma dell’in house dal punto di vista finanziario e della qualità dei servizi e dei risultati conseguiti nelle pregresse gestioni attraverso tale sistema di auto-produzione”.1 In altre parole, se un comune vorrà in futuro mantenere la gestione diretta dei servizi, dovrà far fronte a una serie di obblighi draconiani, come la motivazione anticipata della scelta, il confronto con l’Antitrust, l’individuazione di sistemi di monitoraggio dei costi, la revisione periodica della motivazione stessa. Tutti obblighi che, per contro, l’affidatario privato non sarà tenuto ad onorare. A lui sarà richiesta una semplice relazione annuale sulla qualità dei servizi e sugli investimenti operati.

Non c’è da stupirsi che i primi ad accogliere con piena soddisfazione la bozza del Ddl Concorrenza siano stati i vertici di Confindustria e il mondo della finanza. Draghi si colloca in perfetta continuità con una visione del mondo le cui verità bronzee sono il primato dell’impresa privata e la necessità di ridurre al minimo la sfera pubblica. A confermarlo ci sono diverse misure adottate dal governo negli ultimi mesi, come lo sblocco dei licenziamenti, anch’esso fortemente voluto dagli industriali, per tacere dell’intenzione, annunciata dal ministro Brunetta, di sostituire le ispezioni a sorpresa nelle aziende con controlli concordati e programmati in anticipo (e questo nonostante i dati diffusi dall’Inail dicano che l’86% delle imprese ispezionate nel 2020 presentasse irregolarità sotto il profilo della sicurezza o dei contratti di lavoro!).2

Il privilegio di cui le imprese godono agli occhi del governo è d’altronde confermato dalla scarsissima rilevanza che ha per Palazzo Chigi un tema fondamentale come la ridistribuzione della ricchezza. In questi mesi sono state respinte o accantonate tutte quelle proposte, come l’adozione di una pur blanda patrimoniale o l’istituzione del salario minimo, che avrebbero avuto la virtù, in prospettiva, di ridurre le disuguaglianze cresciute in modo esponenziale anche in Italia negli ultimi trent’anni. È significativo, per contro, che si stia ipotizzando una riduzione delle tasse di cui beneficeranno solo coloro che hanno un reddito superiore ai 28mila euro all’anno, così come molto rivelativi sono gli attacchi che esponenti del governo e della maggioranza rivolgono quotidianamente al Reddito di cittadinanza, uno strumento che, pur con i suoi limiti, nell’ultimo anno e mezzo ha costituito un prezioso aiuto per moltissime persone in stato di indigenza.

A questo proposito, l’Istat segnala che il numero di italiani che vive in condizione di povertà assoluta o relativa si è attestato nel 2020 a sei milioni di individui, ossia una persona su dieci della popolazione censita.3 Un dato preoccupante che non trova e troverà soluzione con l’indifferenza e che dovrebbe quantomeno indurre a riflettere sull’opportunità di apportare concrete correzioni al sistema socioeconomico in cui viviamo.

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