Morti sul lavoro: tocca alla società civile richiamare lo Stato alle sue responsabilità

di Michele Ruggiero |

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Senza fine. Non è l’inizio di una nota canzone romantica. Di romantico non c’è nulla nelle morti sul lavoro che si susseguono a ritmo incalzante. L’ultima tragedia è avvenuta a Torino con crollo di una gru nella trafficata via Genova. Tre gli operai morti. Il più giovane, di Coazze, aveva vent’anni; gli altri due 54 e 52 anni. Altri tre passanti sono rimasti feriti in modo non grave. La cronaca si può fermare anche qui. Sollevare il velo sulle storie individuali rischia di tradursi in uno sterile esercizio di compassione destinata a gonfiare una bolla di emozioni che domani sarà rivolta altrove.
Del resto, non saranno le lacrime a ridurre gli infortuni mortali sul lavoro in Italia. Se ne sono spese tante e tutte cariche di sincero dolore, ma “la strage senza fine” continua ad essere lo specchio fedele di una realtà pietrificata, al quale le istituzioni offrono una cornice di lassismo. Lo Stato finora non si è dimostrato all’altezza del compito che gli viene richiesto, con l’aggravante che il cordoglio puntualmente trasmesso ai famigliari delle vittime suona di giorno in giorno sempre più beffardo. Nei primi dieci mesi dell’anno, i cordogli sono stati una valanga: 1.107, il numero degli infortuni mortali sul lavoro su complessive 448.110 denunce presentate all’Inail.1 La cifra della mortalità segna un incremento del 6,3 per cento rispetto allo stesso periodo del 2020, l’anno della pandemia, in cui i caduti sul lavoro al 31 dicembre sono stati 1.280, 75 in più del 2019, uno in meno del 2018. Con lugubre precisione ragionieristica si totalizzano 4.871 vittime nell’arco di 46 mesi, pari a 24 morti alla settimana, oltre tre al giorno. È eccessivo parlare di carneficina?

Le cause sono le più disparate e si ritrovano ad essere sempre le stesse oggi come ieri e ieri l’altro e, se non si interviene rapidamente, come domani: intensificazione dei ritmi di lavoro e supersfruttamento della manodopera, inadeguati controlli e insufficiente repressione contro le trasgressioni, utilizzo di personale meno qualificato ed esperto (soprattutto nel settore edile) e in quei settori (in particolare nell’agricoltura), dove si richiede manodopera generica, “categoria” per la quale c’è soltanto l’imbarazzo della scelta nell’attingere all’enorme serbatoio di disoccupati.
Per contrasto, il potere d’intervento degli enti preposti alla sicurezza dei lavoratori si è ridotto in misura direttamente proporzionale ai tagli agli organici subiti dalle figure deputate al controllo. Uno “scudo” per quei datori di lavoro disonesti che pospongono la sicurezza dei lavoratori al profitto, con grave pregiudizio della competitività e concorrenza nel mondo dell’impresa. Il che spiega perché sa di lurido alibi tirare in ballo la fatalità, sia quando una gru, sulla cui qualità e sicurezza poggia l’intero ciclo produttivo di un cantiere, si spezza in due, sia quando operai e poliziotti in servizio sono falciati sulle strade o quando edili cadono dalle impalcature. Con un combinato disposto all’omicidio colposo di tale caratura, non è retorica parlare di ansia distruttiva per quei famigliari che con un nodo alla gola salutano i propri cari che vanno al lavoro.

I sindacati torinesi, cui non è mai venuto meno l’impegno e la voglia di lottare per sensibilizzare la società civile sull’ecatombe nei luoghi di lavoro, hanno annunciato un presidio davanti alla prefettura in piazza Castello alle 15 di martedì prossimo. Dinanzi all’ennesimo tragico infortunio mortale, Cgil, Cisl e Uil si ritrovano a chiedere ciò che suona come un urlo nel deserto: fermare la strage dei morti sul lavoro ed applicare subito le norme di legge esistenti e avviare un tavolo di confronto con la Prefettura, cioè con lo Stato, cioè con il Governo.

Ma non si può demandare soltanto ai sindacati lo sdegno e la riprovazione per lo scarso rispetto che si ha in Italia per il lavoro e per chi sul lavoro vi lascia la pelle. Ora è necessario che l’urlo di pochi diventi coro, che le voci siano quelle dell’intera società. Occorre una spinta dal basso che ridia centralità agli enti di prevenzione su cui è necessario investire con nuovo e qualificato personale e con strumenti di controllo che la tecnologia offre. Si tratta di un investimento oneroso, ma doveroso se vogliamo cominciare a rallentare la frequenza di quei carri funebri che si dirigono verso cimiteri di croci bianche.

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