La scomparsa di Daniele Franchi, in lui la passione per il lavoro e la politica

di Michele Ruggiero|

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Stanotte, 11 gennaio, è morto all’ospedale Mauriziano di Torino, dov’era ricoverato, Daniele Franchi, friulano, classe 1939, ingegnere metallurgico, militante e dirigente del Pci dagli anni Cinquanta. È stato un amico vero per coloro che hanno fondato e dato continuità alla Porta di Vetro.

Con Daniele Franchi, figura nota nel mondo delle professioni e nella sanità regionale per aver ricoperto ruoli di prestigio nei consigli di amministrazione in alcuni ospedali pubblici (San Luigi Gonzaga e Mauriziano), scompare una persona di estremo rigore morale, un esempio di severità costruttiva. Un pregio, oggi più di ieri, non sempre condiviso, che in una società tesa alla semplificazione primitiva e non cognitiva produce più fastidio che apprezzamenti e riconoscenza. Una ragione, forse più di altre, che gli ha precluso di raggiungere posizioni politiche che per capacità, cultura, esperienza e soprattutto determinazione, avrebbe meritato.

Un compendio biografico di Daniele Franchi è davvero arduo, e non è retorica. La sua vita, soprattutto quella legata alla militanza politica, ha avuto un che di avventuroso che lui stesso però fissava sullo sfondo della Storia. Uno sfondo da cui si staccava per un primo piano in versione solista, soltanto con gli amici e con le persone intime e sempre con grande discrezione. Daniele Franchi favoriva i racconti che si intersecavano con l’inizio della sua militanza politica che coincideva con l’esperienza di giovane emigrante in Svizzera; un passaggio dei confini deciso in totale solitudine, perché la sua famiglia d’origine aveva scelto di stabilirsi in Francia. Ad unire i Franchi era stato soltanto il desiderio di sfuggire alla miseria e alla fame, quest’ultima da lui sempre descritta con parole crude, genuine, che ti attraversano dentro perché impregnate di un realismo che nulla concedeva allo strapotere della afflizione che solitamente domina quei racconti.

Nei pranzi alle bocciofile con cui Daniele Franchi ha tenuto unito negli ultimi tre lustri un gruppo nutrito di amici, il suo pezzo forte erano i ricordi dei viaggi che organizzava dalla Svizzera per gli emigranti di ritorno in Italia per il voto. Erano autentici “sketch” di storia vissuta, in cui la militanza di partito e lo scontro politico venivano raccontati dando alla prima leggerezza e allegria, e sottraendo al secondo la cupezza della guerra fredda e dell’anticomunismo diffuso, per premiare e privilegiare anche a distanza di decenni il giusto rispetto che si deve alle persone (anche presenti) che onestamente avevano militato dall’altra parte della barricata, avversari politici di quell’epoca.

A tutto ciò Daniele Franchi, ed era il capitolo più spassoso, aggiungeva la sua personalissima fantasia applicata ai problemi, quasi sempre di natura artatamente burocratica, con cui aveva risolto il passaggio della frontiera. Del resto, dotato di un’ironia tagliente e di una voce dalle corde baritonali (straordinaria l’imitazione del generale Charles de Gaulle, in un francese quasi lingua madre) che al telefono impressionava per l’autorevolezza, Daniele Franchi amava improvvisare “boutade” con cui risolvere situazioni, scoprire anche intrighi, come fece nelle vicende dell’Ordine Mauriziano, di cui era uno dei consiglieri d’amministrazione; uno scandalo che a cavallo tra la fine del Novecento e l’inizio degli anni Duemila vide pezzi dello Stato impegnati in una squallida campagna di disinformazione e di diffamazione dei vertici dell’ospedale di Largo Turati.

Una storia sordida e complicata anche per il ruolo avuto dalla Regione Piemonte, da cui l’Ordine Mauriziano, presidente, direttore generale e consiglieri di amministrazione, uscì pulito, intonso, con sentenze favorevoli della magistratura amministrativa cui seguì quella del Tribunale di Torino che ingiunse ai “diffamatori” di pagare un salato prezzo alle accuse infondate. Di quella “battaglia mediatica” e giudiziaria Daniele Franchi fu l’elemento trainante, anima e artefice nel rovesciamento del risultato, che sembrava oramai compromesso per la penetrazione della ricostruzione solo ricca di falsità nell’opinione pubblica.

Nel Pci dirittura morale e serietà gli avevano guadagnato la stima dei vertici, sia a livello nazionale, sia a livello locale, fino ad assegnargli importanti e delicate “missioni” per il partito. Raccontò una di queste, ma con grande discrezione, ad oltre mezzo secolo di distanza dagli avvenimenti, all’uscita del libro “Un’altra parte del mondo”; dense pagine scritte da Massimo Cirri che hanno riportato alla memoria una vicenda tragica: la vita sfortunata di Aldino, il figlio di Palmiro Togliatti, “Il migliore”, il capo riconosciuto del Pci, l’uomo che aveva voluto il “Partito nuovo” nel 1944, dopo il suo arrivo in Italia dall’Unione Sovietica.

Com’era suo costume, Daniele Franchi tracciò i contorni di quella storia in maniera impareggiabile, la vestì con il dovuto pathos che quei tempi di ferro reclamavano, ma agli stessi non fece sconti, né assegnò loro una presunta supremazia politica o morale. E per quel suo particolare ritorno al passato, non si risparmiò nelle pause d’umanità che meritava la figura di Aldino e nell’uso attento e dosato delle parole ogni qual volta erano riconducibili al Pci, il suo partito, che occupava nella sua scala di valori un posto inferiore soltanto alla famiglia, alla moglie Adriana e ai suoi figli, e sullo stesso piano della professione che amava, la metallurgia.

Daniele Franchi sentiva nel profondo l’importanza di essere un ingegnere metallurgico, di conoscere i segreti delle tecniche per la lavorazione di leghe e metalli, un sapere antico che rappresentava l’evoluzione dell’umanità. Anche dopo la pensione, aveva continuato il suo rapporto professionale, invitato a congressi internazionali e a offrire consulenze, consigli, suggerimenti, l’ultimo ieri l’altro, a due operai della sua ex azienda.

Sit tibi terra levis, la terra ti sia lieve, caro Daniele.




Posted on: 2022/01/11, by :