Quando i cosacchi dormirono in piazza Castello

di Emanuele Davide Ruffino|

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Comparvero all’improvviso il 25 maggio del 1799 sulle colline torinesi. Poi si raccolsero sul monte dei Cappuccini da dove con l’artiglieria presero a bombardare la capitale del regno. Dopodiché usseri e cosacchi scesero su Torino, si misero a passeggiare in via Po, per poi accamparsi in piazza Castello. Così si presentarono le avanguardie russe nella capitale sabauda in mano ai filofrancesi.

L’esercito russo era al comando del vecchio maresciallo Aleksandr Vasil’evič Suvorov, l’uomo che aveva catturato il rivoltoso Pugačëv e schiacciato nel sangue la rivolta di Varsavia. Devotissimo, Suvorov si recò in Duomo, dove l’arcivescovo Buronzo cantò in suo onore il Te Deum. Il 26 maggio, nel dichiarare il ritorno della monarchia sabauda e di Carlo Emanuele IV, il maresciallo, all’epoca settantenne, che sarebbe morto esattamente un anno dopo a San Pietroburgo, esortò i militari fedeli al Re di Sardegna a concorrere alla liberazione della loro patria, invitandoli a “prendere le armi contro i francesi ed a recarsi sotto il comando del maggiore Branda Lucioni”, il famoso e feroce comandante della “Massa Cristiana”.


Nel tentativo di fermare i francesi gli austro-russi cercarono alleati, in loco, ma la popolazione piemontese, alla fine del XVIII secolo, non stava poi così male e di interessarsi dei fatti di Parigi non ne aveva granché voglia. La problematica esistenziale di Maria Antonietta: se non hanno pane, mangino brioche, non li toccava. Per i piemontesi, di brioche, neanche a parlarne, ma un pezzo di pane lo avevano tutti (o quasi) e le truppe francesi che facevano razzie nelle campagne non era troppo ben viste. Fu quindi facile per le coalizioni anti-rivoluzionarie far presa sulle popolazioni locali, sempre diffidenti ai cambiamenti.

La fedeltà del popolo piemontese ai Savoia

Il primo innesto delle idee rivoluzionarie non andò bene e quando le fortune transalpine registrarono una battuta d’arresto, la popolazione, istigata da alcuni preti e da nostalgici monarchici, si sbarazzò del regime Repubblicano. A tenere alta la bandiera del “mondo che fu”, non erano solo i nobili defraudati dai loro privilegi, ma una parte del popolo che parteggiava con i briganti, metà manigoldi e metà patrioti.

Il più famoso di questi era Brandaluc, o Branda de Lucioni, a capo della cosiddetta “Massa Cristiana”, che si diede un gran da fare, non senza un personale tornaconto. Specialista in rapine e uccisioni, in alcuni casi era accolto come liberatore, in altri, come bandito volgare e violento, nel mezzo riusciva a rispondere alla generale e indeterminata voglia di rivalsa che cattura il popolo desideroso di salire sul carro dei vincitori. Il marchio di fabbrica dell’avventura di Branda Lucioni fu abbattere l’odiato simbolo giacobino dell’albero della libertà.

Il capobanda ci riuscì a Novara, Vercelli, Santhià, Biella, Ivrea, Chivasso e fin anche Torino. Ottenne persino un investitura ufficiale: quell’editto di cui sopra del maresciallo Suwarow. Comunque, Branda Lucioni di confusione riuscì a crearne parecchia, ma ancor più ne crearono gli austriaci che non appena si allontanarono i russi fecero un pensierino su come defraudare i Savoia del loro regno…

Ritorno al passato per l’Ucraina

Dalla storia non si può stare fuori. Non si tratta sicuramente di ricostruire Gladio, quell’organizzazione paramilitare appartenente alla rete internazionale Stay-behind «restare indietro», promossa all’indomani della fine della Seconda guerra mondiale dall’intelligence americana per contrastare una possibile invasione nell’Europa occidentale da parte degli eserciti del Patto di Varsavia.

Ma un’idea simile probabilmente oggi serpeggia tra gli ucraini: il confronto fra eserciti è sicuramente impari e quindi la strada di prevedere altre azioni diventa inevitabile. Ora, è più che probabile, scongiurata nel 1948 la possibilità di vedere i cavalli dei cosacchi abbeverarsi nelle fontane di piazza San Pietro, che le armate di Putin non arriveranno a Torino, cosi come quelle cinesi si fermeranno a Formosa. Invece, è altamente probabile che se bloccate, o anche solo rallentate le forniture di gas, le nostre economie rischiano di collassare, mettendo in evidenza le carenze politiche degli ultimi tempi che non hanno dimostrata lungimiranza.

L’indipendenza energetica non è stata sicuramente attuata in Italia che oggi è uno dei Paesi più esposti alle crisi internazionali del settore. Economicamente presentiamo uno dei deficit più alti in Europa. E, anche se meno rispetto al passato, il nostro debito è in mani straniere, con la conseguenza che una guerra finanziaria è sopra di noi come una spada di Damocle. L’assetto infrastrutturale è tra i più fragili in Europa, vuoi per le condizioni geografiche della penisola, vuoi per i ritardi nell’affrontare piani di ristrutturazioni bloccati dalle lungaggini burocratiche.

Probabilmente non accadrà niente di catastrofico, ma se non si comincerà ad affrontare con determinazione i problemi, soprassedendo all’assillo di guadagnare qualche consenso nel breve periodo, siamo destinati alla decadenza. Il che ci renderà tutti più poveri e meno liberi.




Posted on: 2022/02/22, by :