Neet: una generazione di giovani italiani da rifondare

di Chiara Laura Riccardo
e Emanuele Ruffino|

|

La crisi si sta stratificando a più livelli (economico, sociale, sanitario, ecc.), ma il “settore” che più rischia di essere emarginato è quello dei giovani e con essi il loro futuro, riflettendo quell’atteggiamento che porta a considerare solo il presente, trascurando le visioni complessive rivolte al domani.

Continua infatti a cresce il numero di giovani che non riescono ad immaginare il proprio futuro e ad investire tempo ed energie nello studio e nel lavoro. Li chiamano “Neet”, acronimo di Neither in Employment not in Education or Training. Sono ragazzi e ragazze che non studiano e non lavorano e che costituiscono circa un terzo della popolazione giovanile. Giovani che troppo presto hanno perso la fiducia e le speranze verso il futuro e che subiscono i cambiamenti sociali anziché tentare di governarli investendo sul proprio potenziale.

L’anamnesi storica: radici e numeri in crescita

L’attenzione specifica verso i Neet emerge verso la fine degli anni Novanta nel Regno Unito, all’interno di uno studio della Social Exclusion Unit, finalizzato ad indagare se i giovani “Not in Education, Employment or Training” fossero a rischio di un’esclusione sociale tale da favorire condotte socialmente devianti.

L’uso diffuso dell’acronimo s’inizia però ufficialmente dal 2010 quando l’Unione Europea decide di adottarlo come indicatore di riferimento sulla condizione delle nuove generazioni. Gli ultimi dati ISTAT del 2021 segnalano che in Italia sono oltre 2 milioni i Neet e quasi un italiano/a su quattro tra i 15 e i 29 anni non lavora, né studia, né si sta formando. Un numero in crescita rispetto al 2020, nonché il dato peggiore in Europa dopo Turchia, Montenegro e Macedonia.

La pandemia da COVID-19 ha certamente accentuato tale fenomeno (quasi a giustificare l’autoisolamento) e lo stato emergenziale ha fortemente colpito le nuove generazioni sia in termini di relazioni sociali (con la punta dell’iceberg rappresentato dai genitori che aggrediscono allenatori e arbitri), che di studio (in aumento gli abbandoni scolastici) e lavoro (disoccupazione dominante).

Nell’analizzare la categoria dei Neet, si rileva che all’interno di questa si trovano sia le persone in cerca di occupazione (circa il 40%), sia gli indisponibili alla vita attiva (circa il 20%), sia le persone non alla ricerca attiva di lavoro, ma in attesa di opportunità (un altro 20%) che, infine, gli scoraggiati che non cercano lavoro e manifestano una imbelle visione pessimistica (il 15% circa).

Se poi si osservano i dati nazionali con la lente delle differenze di genere, possiamo notare come siano le ragazze ad essere le più inattive (il 25%), contro il 21% dei ragazzi. Questo in linea con quanto poi accade nell’età adulta relativamente all’occupazione nel nostro Paese, dove solo il 30% delle donne tra i 25 e i 34 anni con un diploma di istruzione secondaria di primo grado ha trovato un impiego, rispetto al 64% degli uomini.

Immobilità costante, età adulta incerta…

Il fenomeno dei Neet aiuta ad interpretare le nuove generazioni: i giovani vivono oggi un’adolescenza dai confini molto labili che abbraccia un arco temporale molto più ampio rispetto ad un tempo, sfumando poi quasi verso la scomparsa dell’età adulta. Come definire oggi, alla luce dei cambiamenti epocali in atto, la condizione di “adulto” e con essa il concetto di autonomia e progettualità di vita? E ancora, i genitori di questi giovani come vivono (o tollerano) questa immobilità? E soprattutto come si organizzano per aiutare i loro figli a trovare risposte, che non siano solo l’aspettare un aiuto miracoloso dal sistema?

Interrogativi, questi, che sorgono spontanei dinnanzi allo sbocciare dell’età adulta, dove l’esploratività del proprio potenziale dovrebbe essere al culmine e concretizzarsi attraverso la realizzazione personale e professionale. Invece si assiste a quello che qualcuno definisce lo “sciopero bianco” messo in atto da oltre due milioni di giovani.

Forse è necessario interrogarsi su quanto siamo ancora “vittime” di modelli sociali e culturali che vedono nel “posto fisso” la massima realizzazione professionale, nella “famiglia del mulino” quella personale, nel malmenare il personale sanitario perché non distribuiscono immortalità, la sintesi delle relazioni sociali. Essere resilienti in una società che cambia e con essa i suoi valori, vuol dire anche sapersi affrancare da matrici culturali ormai lontane dallo stile di vita odierno, imparando ad investire energie in quel circuito virtuoso di “apprendimento” e di “fare” che favorisca la fiducia nelle proprie capacità, rafforzi le competenze e aumenti la possibilità di realizzazione dei propri progetti di vita e professionali.

Il messaggio che essere giovani e investire in una solida formazione culturale e/o professionale rappresenta il valore aggiunto per contesti in continuo cambiamento, dinamici e competitivi come la nostra società, diventa sempre più difficile da veicolare. Muovere le nuove generazioni sostenendole nell’abbandonare la posizione di difesa, in cui spesso si rifugiano, verso una posizione di costruttivo “attacco” verso la conquista di un futuro di crescita e realizzazione personale e professionale, dovrebbe essere l’obiettivo delle attuali politiche educative, giovanili, sociali e del welfare.

La necessità di politiche attive per scuola e lavoro

Gli sforzi operati dalle precedenti generazioni, uscite dalla Seconda guerra mondiale, erano indirizzati al creare un mondo libero ed un benessere generalizzato, e in Occidente questi obiettivi, seppur con molte falle, si sono raggiunti, ma anziché stimolare nuovi e più prestigiosi traguardi, parte delle nuove generazioni preferisce aspettare che qualcuno risolva, al posto loro, i loro problemi: ipotesi perseguibili in condizioni di crescita economico-sociale, ma difficilmente attuabili in presenza di crisi dettate da fattori esterni.

Il terrorismo su scala mondiale, la pandemia e le guerre in essere hanno bruscamente disincantato da alcune prospettive illusorie (sperando che ciò possa almeno servire a risvegliare le dignità e gli orgogli sopiti). Cruciale diventa la discussione sull’utilità delle politiche di sostegno alla disoccupazione unitamente ai vari bonus & co. che sempre di più vengono stanziati per i giovani inoccupati, ma senza significativi risultati.

Maggiormente propositivo risulterebbe invece articolare il sostegno verso le politiche attive e la formazione/orientamento al lavoro con la realizzazione di tirocini e apprendistato. Se un giovane è svogliato è un problema suo, se lo sono in milioni diventa un problema sociale alla cui risoluzione tutti sono chiamati a dare il loro contributo.

Il fenomeno Neet è la spia di una decadenza che, se non governata, rischia di degenerare in inefficienza e in “spreco” del potenziale delle nuove generazioni. Se il preparare le nuove generazioni costituisce la più redditizia delle attività, i Neet rilevano come pochi e mal gestiti siano gli investimenti nel settore. In altre parti del mondo i loro coetanei sono chiamati ad affrontare prove atroci, in condizioni che offendono il genere umano: ma perché bisogna aspettare l’avvento del degrado affinché si generino reazioni virtuose?




Posted on: 2022/04/23, by :