Il 25 Aprile ad Alpette: in ricordo del comandante “Titala”

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Alpette, poco più di cinquanta chilometri da Torino, poco meno di mille metri di altitudine. Qui, all’imbocco della Valle Orco, la Resistenza prese immediatamente piede dopo l’8 Settembre. Ad animarla un operaio di 49 anni, antifascista, Battista Goglio, detto Titala, nome di battaglia “Spartaco”che cadrà nella battaglia di Ceresole nell’agosto del 1944, uno dei rari scontri in linea tra gruppi partigiani e nazifascisti. Titala e dei suoi compagni sono stati ricordati nella commemorazione che ogni 25 Aprile promuove l’Anpi di Alpette. Alla manifestazione, terminata la messa di suffragio officiata da don Sergio Noscone, hanno partecipato il vice sindaco di Alpette, Graziano Goglio (nella foto, davanti al Sacrario dei caduti nella Resistenza), una consigliera del Comune di Ribordone in rappresentanza dell’Unione montana Gran Paradiso e una delegazione dell’Ana, l’associazione nazionale alpini. L’orazione ufficiale è stata tenuta da Michele Ruggiero, del direttivo ANPI della provincia di Torino.

Cari amiche e amici, compagne e compagni, nel portarvi i saluti del presidente provinciale Nino Boeti, vi ringrazio per il grande onore che mi è stato offerto dall’Anpi di Alpette di poter parlare nel giorno della Liberazione, qui, davanti voi. E l’onore si sposa all’orgoglio di ritornare nel luogo in cui seguii da giornalista dell’Unità, almeno cinque lustri fa, un grande comandante partigiano, dirigente di partito e parlamentare, caro a queste vallate, Ugo Pecchioli. Lo stesso Pecchioli che proprio Alpette volle ricordare in un recente passato con un convegno intenso per la partecipazione affettiva che si registrò. Un convegno privo di retorica, alieno da celebrazioni apodittiche, focalizzato su una figura autorevole. Figure di cui oggi sentiamo, per responsabilità anche nostra, l’assenza, in un panorama sempre più disadorno di quella cultura di autentica unità, scevra da tatticismi di consenso ai piedi dei sondaggi, che seppe esprimere la Guerra di Liberazione con i partiti del Cln.

Partiti che seppero dirigerla, senza smarrire la rotta con avventate fughe in avanti, ma neppure precipitose ritirate o fughe all’indietro, perché proprio nei momenti di estrema difficoltà emerse la forza di condividere il fine ultimo di una lotta impari: la liberazione del nostro Paese dall’occupazione nazifascista. Di quei momenti ardui e controversi, uno su tutti: il proclama del maresciallo Alexander, che nel novembre del 1944 invitò i gruppi partigiani al “letargo”, a rifugiarsi nelle case, ad abbandonare le armi. In quella circostanza, i partiti e il movimento partigiano compatti dissero no. E lo dissero senza giri di parole. Risposero con i fatti. Respinsero l’invito di chi voleva spuntare per ragioni di equilibrio internazionale la lotta armata, e insieme devitalizzare l’orgoglio ritrovato di un intero popolo e di un esercito che, pur nelle contraddizioni di un giuramento a una monarchia codarda e a un re fellone, risaliva la penisola con i suoi gruppi di combattimento, accanto alle truppe alleate.

E anche lì, in quel frangente doloroso, gli italiani assaporarono il profumo dell’unità morale e spirituale. L’unità che rendeva eguali nel coraggio e nell’abnegazione i militari sbandati dopo l’8 settembre, saliti in montagna per dare corpo con il loro sapere delle armi alle prime bande partigiane, eguali a chi combatteva nei reparti regolari, in una egualità che raggiungeva anche chi resisteva nei campi di prigionia tedeschi e chi decise, prigioniero degli anglo-americani, di collaborare per restituire un’immagine di autentica dignità della nostra Italia in cammino verso la democrazia.

I giovani e meno giovani, civili e militari, quanti presero le armi contro i tedeschi e i loro complici fascisti lo fecero coniugando l’intraprendenza all’azione, che nascevano dal rifiuto della dittatura e del totalitarismo. Coraggio, senza calcoli: nella reazione all’8 Settembre 1943 prevalse il cuore. Prevalsero le emozioni. Prevalse quella famosa locuzione di Churchill, “sangue, sudore e lacrime”, stavolta applicata all’Italia. Ma dal 9 Settembre, a prevalere furono la ragione, la mente, la capacità di analizzare le situazioni nella temperie che equivalevano a stragi, rappresaglie, decimazioni, tradimenti, delazioni, ruberie, omicidi a sangue freddo. Dinanzi a quello scenario, quello sì agghiacciante, fu chiaro che il coraggio non sarebbe bastato, che soltanto la ragione avrebbe dato continuità alla lotta, che l’avrebbe rinvigorita, nutrita, e capace di reagire cognitivamente agli eventi negativi, da qualunque parte essi provenissero, compresa la parte amica, appunto.

Non è un caso che fu posta in primo piano, mentre si combatteva, l’unità sindacale da uomini dalle ideologie per alcuni versi antitetiche e provenienti da esperienze diverse, come Bruno Buozzi, Giuseppe Di Vittorio, Achille Grandi. Al contrario, fu posposta la questione istituzionale, monarchia o repubblica, per non alterare la fisionomia del patto di unità politica, la vera motrice dell’antifascismo. Si guardava all’immediato domani, a recuperare la democrazia nelle piazze come sui luoghi di lavoro. Quegli uomini ebbero lungimiranza. Una lungimiranza che ci diede il Referendum del 2 giugno, la Costituente e infine una nuova e moderna Costituzione cui si deve molto di come siamo e di come gli italiani dal ’45 ad oggi hanno saputo difendere la democrazia e il pluralismo e fare grandi passi in avanti sul piano delle riforme e dei diritti sociali.

Così come ebbero una grande capacità di leggere l’animo degli italiani chi si diede alla macchia, coloro che si votarono a combattere i nazifascisti. Quei partigiani, i nostri partigiani, i patrioti del Risorgimento del Novecento seppero interpretare anche la zona grigia più volte evocata in questi decenni che ci separano dal 25 aprile 1945, e seppero costruire un’alleanza solidale con la popolazione civile, pur con gli strumenti insanguinati e confusi di una guerra aspra e crudele che nessuno nega, anche nei suoi episodi più efferati e umilianti per lo stesso movimento partigiano. Ma rimane inaccettabile il gioco al massacro di un revisionismo storico d’accatto, salottiero, volutamente disonesto nel suo negazionismo e nell’uso ragionieristico dei morti, dell’una e dell’altra parte, dei partigiani e di chi li sostenne e venne loro in soccorso, e dei militi della Repubblica di Salò.

In altri termini, la negazione del significato di cinque anni di guerra, una guerra d’aggressione, il significato di venti mesi di guerra civile di un popolo, per cancellare di riflesso il corrispondente impatto distruttivo sulla psiche individuale e di lacerazione collettiva nella vita quotidiana di quello stesso popolo. Operazione che il revisionismo reitera da più angoli di osservazione, con personaggi che sfruttano la loro popolarità per calunniare e svalutare, dietro la maschera del “buonsensismo, ideologia greve del buonsenso, permettetemi il neologismo che fa rima con perbenismo.

Tuttavia, a dispetto dei benpensanti, c’è un valore della nostra Resistenza che rimane inossidabile. È stato scritto con il sangue di chi, proprio qui ad Alpette, è stato ricordato dal presidente della sezione Anpi di Alpette, Evaristo Giardina. Quel valore incarnato dal comandante “Titala” è l’unità d’azione politica, pur con le sue naturali ombre di un mondo che già prima dell’8 maggio, data della resa della Germania, era destinato a dividersi. Una divisione che sarebbe stata palese il 6 agosto del 1945 con il bombardamento nucleare degli Stati Uniti su Hiroshima.

La Resistenza italiana, invece, ha unito e resiste. Sono crollati i Muri, la storia ha cancellato i partiti del Cln, i partigiani sono sempre meno e non potrebbe essere altrimenti. Ma l’ANPI è qui. Noi abbiamo raccolto il testimone di quella straordinaria esperienza della nostra storia che è la Resistenza, e quel testimone non lo lasceremo cadere a terra. Noi siamo qui. Siamo qui perché non è mai venuta meno la continuità dei valori e dei principi che diedero la spinta ai “banditi”, come li chiamavano con disprezzo i nazifascisti, per noi “i ribelli”, disposti a pagare di persona, disposti a combattere per un’Italia nuova, per un’Europa di pace e un mondo nuovo.

Quella continuità non nacque a caso. Fu assicurata nelle fabbriche dalla memoria dei vecchi operai che avevano lottato con Gramsci e l’Ordine Nuovo, che si erano opposti alle angherie fasciste, che ricordavano il 18 dicembre del 1922: un massacro, 14 uomini uccisi e 26 feriti a Torino per rappresaglia dalle squadracce nere. Quei morti erano sindacalisti, operai, socialisti, comunisti e anarchici, anche persone estranee alla politica, martiri della violenza fascista che non contemplava la democrazia, seppur liberale dei tempi.

Quella continuità di valori e di principi fu assicurata anche nelle scuole ai giovani studenti da quegli insegnanti antifascisti, maestri di vita che non si adattarono, ma che continuarono a credere nell’uso della ragione, a credere nella centralità del pensiero, spiegando quanto fossero pericolose le reazioni di “pancia” e controproducente il mero appiattimento sulle ideologie, ma quanto, invece, fosse importante e decisivo, guardare in primis ai bisogni reali delle persone. Penso a chi, come il mio maestro di giornalismo, Piero Mollo, partigiano a diciassette anni con Ugo Pecchioli, scrisse sui muri del suo liceo a Torino, “Viva Stalin”. Un suo professore riprese bonariamente lui e i suoi compagni, autori del gesto, e li invitò a scrivere: “abbasso la guerra, vogliamo il pane”. Ciò che per molti popoli rivieraschi del Mediterraneo e del vicino Oriente, oggi, a causa della guerra, è il rischio maggiore: una crisi alimentare, senza precedenti.

E allora c’è da chiedersi se oggi come ieri, non sia doveroso gridare ancora una volta con vigore “abbasso la guerra, vogliamo il pane” e, dopo aver condannato l’invasore dell’Ucraina, il dittatore di turno, Putin, con i suoi generali, osservare con un minimo di riserva e prudenza dettato dal raziocinio, chi continua a gridare invece “armi, armi, armi”, rinunciando ad avere una visione d’insieme nell’interesse comune e generale, in rotta di collisione con il lavoro delle diplomazie. E, personalmente, guardo con diffidenza chi sostiene l’invio di missili all’Ucraina, dando l’impressione di essere preoccupato unicamente di vincere. Ma a quale prezzo, non si dice. Anche a rischio – e qui sorge il sospetto che sia un interesse collaterale alla guerra – di compromettere e minare proprio quell’unità di intenti e di principi che ha permesso all’Europa di crescere, di allargarsi, di conservare la pace da 77 anni.

La pace. La pace in Ucraina per il popolo ucraino. Ecco, senza pretendere di essere un esegeta, credo che sia questa la posizione che l’ANPI ha cercato di costruire e di inviare al Paese come messaggio di impegno. Pace e non codina equidistanza, come si è argomentato e avallato da più parti, anche all’interno della stessa associazione con un’impazienza invasiva nel merito e nel metodo, e forme di protagonismo divisive che sono destinate a danneggiare i rapporti umani, anche al di là delle stesse intenzioni di confronto plurale.

Ma è proprio sul principio di pace e di unità che oggi si fa Resistenza nel giorno della nostra Resistenza. A dispetto di chi vorrebbe “un rompete le righe”, “un tutti a casa” dell’ANPI, quasi pretendendo un altro 8 Settembre di segno diverso. Forse, sarà anche un modello della propria esistenza. Più facile, peraltro, per conservare privilegi e vantaggi, esattamente come coloro che con estrema rapidità e disinvoltura si adattarono al Fascismo, sostenendo che fosse il male minore. Ma non credo che sia il modello esistenziale dell’Anpi. Non è nel suo e nostro DNA, perché proprio dall’8 Settembre è fecondata la Resistenza, e dalla Resistenza l’incubazione dell’associazione nazionale partigiani d’Italia. Semmai, ho la sensazione che il fine ultimo sia quello di sbarazzarsi di chi ha il coraggio di non schiacciare la propria coscienza sull’idea dominante, di conservare il dono del dubbio, che in questo caso non corrisponde ad approvare né Putin, né l’aggressione dell’esercito russo.

Mi avvio alle conclusioni. Se siamo ancora qui, significa che la memoria non è mai banale. Ma attenzione, può essere banale come si ricorda. Se si tralasciano i particolari, per esempio, se si offusca la memoria alla voce Tribunali speciali fascisti, che processarono la libertà di espressione e di pensiero, che comminarono secoli di carcere, oltre a mandare al confino centinaia di antifascisti. Ancora. Se non si contrastano ricostruzioni artefatte e generiche, una per tutte: quella che sotto il fascismo si stava bene, luogo comune gratuito e individualistico, che afferma, ma non racconta; o quella, il mantra dei nostalgici dell’uomo forte, che anche Mussolini ha fatto cose buone. Forse, confondendo il male per il bene, visione distopica della guerra all’Etiopia, alla Spagna Repubblicana, all’aggressione alla Grecia, alla Jugoslavia e all’Unione Sovietica.

Per contro, se siamo qui, è per la gratitudine che la nostra memoria deve a uomini valorosi, che sacrificarono le loro vite per la Libertà. Uno di questi è Battista Goglio, detto Titala, classe 1894, un figlio di Alpette, famiglia contadina, che più vicino ai cinquanta che ai quarant’anni organizza, dopo l’8 Settembre una prima riunione clandestina in uno di prati che circondano l’abitato. Titala è una forza della natura: raccoglie i militari in fuga e dà il colpo di gong per l’avvio della resistenza armata. Il gruppo riesce a recuperare in breve tempo armi a sufficienza, ad intercettare e a coinvolgere sia sbandati dell’esercito italiano che ex prigionieri jugoslavi, cecoslovacchi, inglesi. Nasce così il gruppo «Aquila», in stretto contatto con la pianura, soprattutto con gli abitanti di Cuorgnè, Feletto e San Benigno.

La storia è incalzante e l’avrete ascoltata anche più volte. Ma è uno di quei racconti che rende la memoria mai banale. Con l’aumento degli effettivi, nella primavera del 1944 il gruppo Aquila diventa la 50a Brigata Garibaldi «Mario Zemo» e nell’autunno viene inquadrata come 77a Brigata Garibaldi, di cui Titala è il Comandante con il nome ‘Spartaco’, il nome di uno schiavo coraggioso che si ribella all’Impero romano. Perché anche di ribellione si tratta, quando dal 29 luglio all’11 agosto 1944 la sua Brigata Garibaldi insieme ad altri gruppi, affrontano – anche con forze inferiori ai nazifascisti, una battaglia tra Valperga, Cuorgné, Alpette, Trione, Noasca e infine a Ceresole.. Ed lì che Titala muore. È una morte fisica che dà alla luce il mito. Di cui noi esseri umani avremo sempre bisogno per continuare a credere negli ideali di giustizia, di egualitarismo, di libertà.




Posted on: 2022/04/25, by :