Afghanistan, “no all’indifferenza sui diritti negati alle donne”

di Enrica Formentin|

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Ai timori espressi di recente dal Consiglio di Sicurezza Onu sul rispetto dei diritti umani fondamentali per le donne in Afghanistan, i talebani, al potere dal 15 agosto dello scorso anno, hanno replicato con un secco “sono infondati”. In altre parole, i timori non sono degni di attenzione. Eppure, non si sono ancora spenti nella capitale Kabul gli echi della recente protesta di un gruppo di donne afghane che ha manifestato contro le limitazioni di genere imposte nell’istruzione e nel lavoro. Al grido di “pane, lavoro e libertà”, le donne hanno sfidato il regime chiedendo la riaperture delle scuole, prima di essere raggiunte e disperse dai miliziani talebani.

Per capire meglio perché il regime talebano insista cosi intensamente a ripristinare la stessa condizione della donna di vent’anni fa, prima dell’intervento delle forze della coalizione militare occidentale, è bene fare un salto nel passato. Nonostante che costumi e tradizioni varino da regione a regione, la sottomissione delle donne agli uomini è un comune denominatore storico. Ciò è legato a una concezione religiosa che vede l’uomo al di sopra di tutto e al centro del mondo, a lui il compito di educare la donna considerata intellettualmente inferiore, secondo la tradizione islamica dominante il quel paese.

Le fasi storiche “progressiste”

Nel 1921 venne attuato un piccolo cambiamento positivo: fu abolito il matrimonio forzato, quello infantile e il “prezzo” della sposa. Nello stesso anno venne anche vietata la poligamia. Tutt’oggi è ancora vietata, ma non per motivi religiosi, ma per evitare che importanti esponenti dei talebani utilizzino i fondi del gruppo per pagare la dote della seconda, terza moglie, alle rispettive famiglie.
Ora facciamo un salto in avanti. Siamo nel 1977, quando una donna afghana, Meena Keshwar Kamal, fonda la Revolutionary Association of Afganistan (RAWA). Era un’associazione che si occupò di sensibilizzare i diritti delle donne e dell’importanza della loro educazione. L’iniziativa non passò però inosservata: minacce di morte e aggressioni colpirono Meena Keshwar Kamal e le attiviste della Rawa, alcune furono uccise, e la stessa fondatrice trovò la morte il 4 febbraio del 1987 per mano di un sicario.

Dall’occupazione sovietica alla guerra dei mujaheddin

Negli anni Ottanta le donne afghane, paradossalmente, complice l’occupazione del Paese da parte dell’Armata rossa sovietica, si ritrovano in una situazione di libertà: possono studiare all’università, lavorare, indossare ciò che desiderano. Fu una finestra spalancata sulle libertà civili che si aprì in Afghanistan, nonostante la contrarietà espressa ai cambiamenti da numerose fazioni conservatrici della popolazione. Il periodo positivo si esaurì alle soglie del 1992, all’inizio della guerra tra forze contrapposte dei mujaheddin per assicurarsi il controllo del paese.

Nel 1996, i telebani presero e consolidarono il potere, cancellando brutalmente “la primavera delle donne afghane” alle quali fu imposto il velo (hijab), il vestito integrale (burqa), la sottomissione assoluta al maschile, relegate in casa e sempre accompagnate all’esterno da un tutore famigliare (marito o padre).

La figura femminile venne totalmente eliminata dai media ed esclusa dalle attività sportive . Venne persino vietato il rumore dei tacchi, pena la fustigazione. E salì in modo esponenziale il numero di donne che giustiziate per adulterio. Altre, invece, andarono incontro ad un destino anche peggiore: poiché era vietato ai medici uomini di visitare le donne e, allo stesso tempo, era vietata alle donne la professione medica, molte di esse morirono per mancanza di cure, oppure decisero di darsi fuoco.

Vecchio e nuovo regime talebano

Con la fine del regime dei talebani nel 2001, tutti i divieti precedenti vennero abrogati. Le donne scesero in piazza senza burqa per festeggiare. Le bambine poterono ritornare a scuola, anche se solo in istituti femminili, ma indossando una divisa che le copriva interamente. Nonostante ciò, le violenze contro le donne non finirono: nel 2007 una giornalista afghana, Zakia Zaki, proprietaria di una stazione radio, fu assassinata con sette colpi di pistola a nord di Kabul; nel 2008 alcune studentesse vennero sfregiate con l’acido, “punite” per aver avuto l’iniziativa di essere andate a scuola. Questo, però non fermò la loro avanzata, con un aumento di presenze femminili, soprattutto nell’informazione e nella medicina.
Il punto di non ritorno si è toccato il 15 agosto del 2021, quando i Talebani hanno ripreso il controllo politico, militare e sociale dell’Afghanistan. Le donne, tuttavia, stanche di scendere a compromessi per l’ennesima volta, sono scese in piazza a Kabul e ad Herat per manifestare. Alcune sono state picchiate “in linea di coerenza” con quanto annunciato che alle donne è vietato lo sport in pubblico, poiché potrebbero trovarsi in situazione in cui il loro viso o il loro corpo non saranno coperti. Sul fronte dell’istruzione, i talebani hanno concesso alle donne di studiare, ma potranno farlo soltanto in aule separate dagli uomini, indossando il velo e, comunque, non potranno ricoprire cariche politiche di prestigio.

La brutale cancellazione dell’individualità femminile

Ma limitazioni e divieti non si esauriscono qui. Le donne afghane non possono lavorare fuori casa, non possono fare attività di alcun tipo se non, appunto, accompagnate; non possono andare in bicicletta, non possono presenziare a trasmissioni sia radiofoniche, sia televisive; non possono trattare con negozianti uomini e, ancora una volta, non possono essere visitati da dottori maschi. Ultimo, ma non meno importante, possono utilizzare mezzi pubblici soltanto se riservati a sole donne.

Il contributo negato alle donne dell’Afghanistan segnerà in maniera drastica il settore economico di uno dei paesi più poveri del mondo, che soffre la fame, che porta le donne ad atti inaccettabili come quello di vendere i propri figli per contrastare la povertà estrema. La situazione, tuttavia, viene monitorata giornalmente della Commissione per i diritti delle donne e dalla Commissione per i diritti umani, soprattutto per via dei disordini che hanno caratterizzato i momenti successivi all’insediamento del nuovo governo: oltre alle manifestazioni, infatti, molte donne hanno deciso di fuggire in Occidente, nella speranza di poter trovare un futuro diverso.

“Dovrebbero indossare un chador (il burqa dalla testa ai piedi) poiché è tradizionale e rispettoso”: questo è uno dei passaggi del decreto emesso da Hibatullah Akhundzada, politico afghano e guida suprema dei talebani, reso pubblico dalle autorità durante un evento a Kabul. L’appello anche metafisico che attraversa le coscienze delle donne di tutto il mondo è come una parola d’ordine: i riflettori sulle donne afgane non devono spegnersi, non possono spegnersi. E per fortuna, stiamo assistendo a una sorte di “sorellanza” che aiuterà le donne afghane a non precipitare nell’invisibilità.




Posted on: 2022/06/06, by :