“Quota 100”: un flop che rinvia anche la riforma delle pensioni

di Emanuele Davide Ruffino|

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Il diktat di non parlare della riforma delle pensioni non risolve i problemi, ma ne impedisce di sviluppare analisi. Infatti, “Quota 100” è stata richiesta da meno della metà degli aventi diritto e “Quota 102”, con circa 3000 domande, ha rappresentato, di fatto, un blocco dei pensionamenti. Lo certificano i dati Inps e l’UPB (Ufficio Parlamentare Bilancio) segnalando una discrasia tra mondo reale e dibattito politico, o più esattamente l’assenza di dibattito politico.

Il primo elemento a saltare all’occhio è che non ha funzionato la pretesa del legislatore di determinare il comportamento delle persone per le pensioni. Nei tre anni in cui è stata in vigore “Quota 100” le domande di pensionamento sono state poco meno di 380 mila. Si stimava l’adesione di un milione di richiedenti e tale errata valutazione ha permesso di risparmiare oltre 10 miliardi.

Penalità ed esigenze di vita

I numeri dell’indagine, segnalano che a ricorrere a “Quota 100” sono stati soprattutto uomini, 68,8% rispetto al 31,2% di donne. L’età media alla decorrenza si è attestata al di sopra di 63 anni, mentre l’anzianità contributiva media è di 39,6 anni. Quasi la metà proveniva da lavoro dipendente privato, il 30% da lavoro dipendente pubblico (anche se ciò non ha permesso di svecchiare la Pubblica amministrazione che rimane la più vecchia d’Europa, con un età media intorno ai 50 anni) e dal lavoro autonomo per circa il 20% dei casi.

Se si considera la percentuale sulla base occupazionale l’impatto è stato più consistente nel Mezzogiorno e minore al Nord. Evidentemente la riduzione sull’assegno pensionistico di circa il 4,5% per anno di anticipo per i lavoratori autonomi, del 3,8% per i dipendenti privati e del 5,2% per i dipendenti pubblici, pesa di più laddove il costo della vita è maggiore.

Pressing virtuali e realtà confuse

Come evidenziato dall’Inps, attualmente il sistema appare sostenibile in quanto sono stati risparmiati 1,1 miliardi di euro di assegni previdenziali nel 2020 a causa dell’innalzamento della mortalità per effetto della pandemia, ma nonostante ciò la spesa è destinata ad aumentare per fattori demografici, a conferma che a pagare gli errori del passato (le baby pensioni) sono le generazioni successive.

Un’economia sana, che si pone come obiettivo lo sviluppo, dovrebbe dotarsi di regole certe, espressione di programmi politici realistici: l’esatto contrario di ciò che sta accadendo sulla riforma delle pensioni con le imprese in balìa dell’incertezza sul mercato del lavoro. Le possibili modalità di superamento della legge Fornero potrebbero condizionare l’uscita di circa il 10% della forza lavoro di molte imprese, ma così non sarà perché le condizioni della finanza pubblica obbligheranno a regole stringenti che, così come per quota 100, indurranno a ritardare l’uscita dal lavoro (vivendo alla giornate e sperando che figli e nipoti si sistemino).

Le proposte sul tappeto

Attualmente le ipotesi credibili si possono così riassumere:

1) La proposta del presidente dell’INPS Tridico che ipotizza una pensione flessibile in due tempi, dove una prima parte di rendita sarebbe liquidata subito, al raggiungimento dei 63 anni di età, ma a valere solo sui versamenti effettuati nel sistema contributivo. Poi, una seconda parte al raggiungimento dei 67 anni, a valere sulla restante parte dei versamenti effettuati prima del 1996, cioè nel sistema di calcolo retributivo (il sistema così concepito avrebbe il merito di mantenere in equilibrio i conti dell’Inps).

2) La proposta dei Consulenti del Lavoro volta a ricercare la massima flessibilità, cioè senza requisiti minimi anagrafici o contributivi. Ovviamente ciò comporta meccanismi di riduzione del valore della pensione basati sui contributi versati (con una conversione al sistema contributivo) e una riduzione percentuale progressiva con il numero di annualità di anticipo rispetto all’età di vecchiaia. Un sacrifico reciproco: il dipendente va un po’ prima in pensione e lo Stato risparmia qualcosa.

3) La proposta del gruppo Uniti per la Tutela del Diritto alla Pensione che prevede una flessibilità in uscita con una decurtazione del 1,5% entro i 62 anni per ogni anno di anticipo e entro i 66 anni e in contropartita la possibilità di restare al lavoro oltre i 66 anni fino ai 70 vedendo incrementato della stessa percentuale l’assegno mensile (la percentuale potrà essere eventualmente rivista per raggiungere un punto di equilibrio finanziario).

Effetti recessivi e inflazionistici

Altre proposte, come 41 anni di contributi indipendentemente dall’età, non sono finanziariamente sostenibili sia sotto un profilo finanziario, sia sotto un profilo razionale, in quanto non considera i due pilastri base di un sistema pensionistico (quanto versato e la vita media attesa). Per assurdo si permette di andare in pensione ad un soggetto che ha versato pochissimo per 41 anni, ma non uno che ha versato il doppio o il triplo ma in 39 anni!

Il problema si complica ancor più se considera la necessità di rivalutazione delle pensione, causa inflazione, e per le incertezze sul futuro dell’economia derivanti dalla crisi degli approvvigionamenti provocata dalla guerra in Ucraina. Ma ciò che preoccupa è il disimpegno del mondo politico (il Ministro del Lavoro si limita a dichiarare che il Governo esaminerà il problema, quando non si sa) a formulare proposte concrete, tenendosi l’arma delle pensioni da utilizzare a fini elettorali.




Posted on: 2022/07/02, by :