Epidemia: la differenza tra credibilità e sentito dire

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

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Nei momenti di confusione, non può sfuggire l’importanza di saper acquisire comportamenti utili per gestire il quotidiano e capire verso quali lidi si sta indirizzando la società. Ma quando, una notizia, un prodotto, una proposta o un personaggio diventano credibili e affidabili?

Le crisi, quando incontrollate, tendono ad annullare la lucidità necessaria per conoscere e verificare direttamente i fatti, obbligando a concedere fiducia, o sfiducia, ai soggetti più strani. Il generico individuo non può interrogarsi con sufficiente perizia sulla veridicità dei fatti che lo circondano creando il substrato per il diffondersi, una volta dei pregiudizi, oggi dall’imperversare delle fake news: ma più pericolose sono le mezze verità create ad arte per indurre visioni scorrette e confusioni generate per nascondere il vero. Se già si riusciva a condizionare il voto di milioni di americani, inglesi…, figuriamoci con quale facilità si riuscirà a condizionare i consumi, agitando lo spettro del Coronavirus.

Ditte agguerrite, lobby di interessi, rivendicazioni di categoria, si agganceranno alle modalità di prevenire la prossima ondata epidemica per affermare i loro business. La mancanza di contrapposizione tra più criteri di pensiero alternativi e antitetici (in altre parole, ideologie, intese come sistemi concettuali e interpretativi dei fenomeni sociali) porta a generare un’infinità di messaggi amplificati dai moderni strumenti di comunicazione, che li ammantano come se fossero una nuova filosofia di vita, anche se basati su fattori marginali.

La vaghezza che ne discende rischia d’indurre comportamenti negligenti: poche parole chiare su come evitare il contagio, il resto rischia di diventare solo un esercizio dialettico o un’occasione per chi cerca di vendere qualche prodotto o per avviare un contenzioso o, semplicemente, per sfogarsi contro qualcuno (il bisogno di prendersela con un nemico è sempre allettante). Il tentativo di far transitare slogan, a scapito dei contenuti, riduce di fatto le possibilità di formare una concezione propria da parte delle persone, rendendo sempre più difficile distinguere le proposte di una parte rispetto ad un’altra: se si potesse organizzare un questionario, presentando le soluzioni avanzate, sia sanitarie, sia economiche, senza specificare i soggetti che le hanno formulate, pochi riuscirebbero ad accoppiarle con l’autore. Realizzare una mappa dell’attuale pensiero, appare quanto mai complesso, non riuscendo così ad identificare delle linee d’azione chiare (presupposto per la condivisibilità).

Tra i tanti che propongono una soluzione per il Coronavirus perché si dovrebbe credere ad uno, anziché ad un altro? La prima risposta sarebbe quella di affermare che la credibilità non dipende solo dal contenuto dell’informazione, in quanto, anche quando si comunicano contenuti simili, il grado di credibilità muta profondamente. Non sappiamo quanti sono i morti riconducibili ai fatti di piazza Tienanmen (secondo fonti britanniche si parla di centinaia di migliaia), così come dubitiamo sui reali dati dell’epidemia nelle bidonville dei Paesi del Terzo Mondo, dove l’invito a rimanere in casa suona quasi come una minaccia, mentre non si dispone ancora di statistiche sulle conseguenze degli eccessi generati dal contrastare l’epidemia (la Clorochina mal utilizzata in Francia ha già provocato i primi morti), ma dovremmo aver già percezione delle tragedie provocate dalle malattie, come il morbillo, che da anni mietono vittime senza sosta.

Negli ultimi anni l’importanza di come si comunica ha assunto un ruolo fondamentale non solo nelle strategie di marketing: nate per far conoscere ed affermare un prodotto o un marchio, hanno finito per essere esse stesse creatrici di notizie. Ciò ha portato a trascurare la qualità del prodotto, a vantaggio di un’adeguata capacità divulgativa. La degenerazione di questo atteggiamento è di distaccarsi dalla realtà per creare bisogni o conoscenze del tutto infondate.

Quando si parla di prescrizioni sanitarie, la sostanza del discorso assume ancor più importanza, sia per i contenuti intrinsechi, sia nella parte comunicativa, in quanto deve raggiungere e coinvolgere tutta la popolazione, evitando qualsiasi forma di mistificazione. Il coronavirus attrae inevitabilmente l’attenzione dell’opinione pubblica: si esamineranno col tempo tutto quello che si è detto e scritto e quanti comportamenti e prescrizioni sono state adottate solo come forma di pura autotutela. La preoccupazione dei burocrati rimane quella di evitare qualsivoglia conseguenza in capo a loro: speriamo almeno che le norme basilari di igiene rimangano ben scolpite nella mente, almeno fino alla prossima influenza.

L’individualismo attuale tende a focalizzare nell’uomo l’unità di misura di tutte le cose, accentuando così l’attenzione sul recettore delle informazioni. L’indubbia crescita culturale registrata negli anni recenti induce però ad una diversa “ricezione” della stessa notizia in capo ai singoli soggetti, generando reazioni profondamente diverse. Nella nostra società viene cioè immessa una tale quantità di informazioni per cui nessun soggetto ascolta e/o presta attenzione alle stesse notizie e, contemporaneamente, tutti i soggetti, le recepiscono in base alla loro cultura e in base al loro retroterra intellettuale, cioè in modo diverso uno dall’altro. In questo contesto, addivenire ad un senso comune e, di conseguenza, collaborare per far muovere la società verso una direzione univoca, diventa sempre più complesso.

La gravità della situazione generata dal Covid19 obbligherà a rivedere il nostro rapporto con il modo di acquisire la conoscenza e come darne unicità e sintesi di fronte a fatti sconvolgenti che richiedono decisioni tempestive. Per ora limitiamoci a complimentarci con quelle pubblicità che sconsigliano di accumulare prodotti, perché loro garantiranno la fornitura: un segnale di tranquillità e di fiducia in se stessi e nel sistema.




Posted on: 2020/04/06, by :