Smart working e nuovi stili di vita

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

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La salute è diventata un bene comune globale cui tutti sono chiamati a fornire un contributo modificando il proprio stile di vita. Premesso ciò e aggiungendo che le critiche piovute sui governi di tutti i paesi sono sicuramente meritate (se non altro per l’incapacità di definire chiare linee di indirizzo), è altrettanto evidente che se non si adotteranno nuove regole di vita dal Coronavirus non se ne uscirà fuori. Ma a vedere le mascherine, con o senza marchio CEE, buttate in ogni angolo di strada qualche dubbio comincia a sorgere. In effetti la nostra società è attentissima a rilevare la correttezza del tipo di etichetta, meno sulla qualità “effettiva” del prodotto, pochissimo su come viene smaltito.

Chissà se rivedremo ancora le oceaniche concentrazioni di persone (dove ognuno poteva inventarsi il numero di partecipanti) che hanno condizionato i grandi momenti della storia recente o i rave party dove si spacciava impunemente. Probabilmente sì, ma con un po’ più di circospezione, o per le distanze da tenere o per i valori dei temi trattati. Quello su cui però bisogna riflettere è perché non si siano mai attuate disposizioni che avrebbero potuto migliorare le condizioni di vita, diminuire l’inquinamento, anche quello da contatto fisico, pur essendoci le norme che lo permettevano, anzi lo incentivavano. È il caso dello smart working. Parlare di rivoluzione di un qualcosa già attivo da anni sembra alquanto strano eppure, per la Pubblica Amministrazione italiana, l’introduzione su larga scala del “lavoro da remoto” causa Covid-19 ha costituito un rivolgimento di dimensioni epocali, da cui non si potrà tornare indietro.

Lo smart working nasce con internet allorché si cominciò a pensare di svolgere alcune operazioni da posizioni diverse dalle tradizionali postazioni di lavoro. Il concetto è di una semplicità estrema: non è importante da dove si opera, ma la qualità/quantità del lavoro svolto. Cenerentola della situazione è la Pubblica Amministrazione con pochissimi progetti e ancor meno attuazioni concrete (meno dell’1 per cento aveva attuato iniziative concrete). Eppure sono diversi gli studi che quantificano un significativo aumento della produttività (l’Università di Stanford stima un +13 per cento medio). A fronte di questi dati non si può eludere la domanda su quali “forze oscure” si sono mosse per ritardare l’avvio dello smart working: questa volta la colpa non può essere data al mondo politico perché la normativa in materia, è abbondante.

Partono gli inglesi con il Flexible Working Regulation nel 2014. Li segue il Parlamento Europeo con la risoluzione del 13 settembre 2016 (principio generale n. 48) e la Francia nel 2017 con lo Loi Travail. In Italia il 13 giugno del 2017 è stata promulgata la Legge 81/2017 che, con gli articoli 18 – 24, disciplina le misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato, amministrazioni pubbliche comprese (linee guida della Presidenza del Consiglio emanate il 26 giugno del 2017). Con apposito Decreto attuativo venivano poi introdotte le misure per la promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, prevedendo, tra l’altro, di raggiungere il 10 per cento del personale coinvolto. Tre anni sono passati ma l’obiettivo è rimasto una chimera. L’assetto normativo è stato predisposto, ma di attuazione neanche a parlarne. Le ragioni di questo ritardo sono da ricercarsi nel livello culturale della P.A. (dove si può espressamente parlare di “analfabetismo organizzativo”). L’attenzione delle strutture pubbliche è ancora tutta incentrata sui controlli di tipo formale: dal controllo sulla regolarità degli orari di servizio (ampiamente disattesi in questa fase di emergenza), alle timbrature (cui alcuni impiegati infedeli fornirono ampie e colorite ragioni per intervenire sulla questione).

Infine, lo smart working presupporrebbe il passaggio da un controllo su “quanto tempo si sta davanti al computer” a “che cosa si fa davanti al computer”. Nonostante che l’Italia sia all’ultimo posto nella classifica europea per il livello di produttività, l’ipotesi del lavoro agile non è stata di fatto presa in considerazione. Anche in presenza di un’epidemia già conclamata, le resistenze sono state molteplici. Un ritardo che probabilmente è cagione di molti contagi evitabili. Visto che non si è fatto niente, come spesso accade nel sistema italiano, si è provveduto ad emanare altre norme: i provvedimenti D.P.C.M. 1 marzo 2020, Decreto Legge 2 marzo 2020, n.9; Direttiva n. 2.del 2020 del Ministero della P.A. dove si è ribadito “il ricorso, in via prioritaria, al lavoro agile come forma più evoluta anche di flessibilità di svolgimento della prestazione lavorativa…”. Per dare attuazione allo smart working non sono sufficienti le norme, ma occorre operare un cambio di mentalità non solo per impedire ai soliti furbetti di approfittare della norma, ma per definire compiutamente le attività della P.A. in una logica di efficientismo e non solo di assolvimento del dettato burocratico, senza perseguire lo scopo per cui è stata emanata.

Così come per l’uomo appena uscito dalla caverna idealizzata da Platone avvertiva la tentazione di tornare nell’oscurità cui era abituato, la prova definitiva sarà il ritorno alla normalità. Una normalità diversa, se si vorrà davvero continuare a ridurre inquinamento e traffico cittadino, aiutare le famiglie con figli o anziani a carico e agevolare le persone con patologie invalidanti, ma soprattutto se si vorrà procedere ad una riorganizzazione del settore pubblico con criteri manageriali, riducendo il ruolo della burocrazia. In fin dei conti, al cittadino contribuente, non importa sapere quante ore il dipendente pubblico trascorre in ufficio dopo aver timbrato il famigerato cartellino, ma quale contributo fornisce alla formazione del benessere collettivo. Sarebbe una rivoluzione copernicana!





Posted on: 2020/05/05, by :