Per rilanciare il lavoro riduciamo il cuneo fiscale
di Giuseppe Scalenghe|
| A pochi giorni dalla conclusione degli Stati Generali dell’economia tenuti a Villa Doria Pamphilj, la domanda che circola con maggiore insistenza tra gli imprenditori non può che essere diretta e, per forza maggiore, condivisa dai cittadini e dai corpi intermedi della società: quali risultati potranno scaturire dalla serie di incontri avuta dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte con più attori economici, finanziari e politici sia nazionali che internazionali?
Il risultato immediato che ci si attende è un piano organico di azioni finalizzato a ridare impulso alla nostra economia. Almeno questo sarebbe il logico frutto di un momento di ascolto a ventaglio. Ma se ciò non si verificherà, sarà spontaneo chiedersi “cui prodest?”, a chi giova? Oggi la maggior parte delle attività ha un problema di conto economico. Il che tradotto, significa che i ricavi (il fatturato, per semplificare) non coprono i costi e quindi si registra un deficit di bilancio. Un problema economico, serio, che a lungo andare diventerà – per quanti non lo è già ora – un problema finanziario, poiché le imprese non riusciranno più a far fronte con i loro incassi ai pagamenti che devono effettuare. Un effetto semplice da comprendere.
Quindi se il problema è il problema dei ricavi, la soluzione non può che passare dall’aumento dei ricavi stessi, attraverso misure adeguate e di stimolo ai consumi. Dunque, non si tratta di assistenzialismo, ma di creazione di lavoro. E a poco (non dico nulla) serve quanto fatto dal governo per consentire alle aziende di indebitarsi, se in parallelo non c’è un piano di rilancio dell’economia italiana. Certamente uno dei provvedimenti che questo piano organico di azioni deve contenere è la riduzione del cuneo fiscale. E, in proposito, riprendo e sottoscrivo i concetti del prof. Terna espressi di recente su La Porta di vetro1:
La riduzione del cuneo fiscale è una misura strutturale che dà competitività alle imprese e consente anche di riconoscere retribuzioni migliori ai lavoratori, senza gravare in misura doppia sui conti aziendali. Si tratta di un’azione infinitamente più importante della selva di provvedimenti sul lavoro a tempo determinato o indeterminato, a tutele crescenti o più o meno inesistenti. Un’azienda sana, che ha lavorato perché competitiva, non assume o licenzia per capriccio, ma per effetto di valutazioni molto ponderate sul conto economico. Non esiste imprenditore sano di mente che rinunci a cuor leggero a collaboratori che si sono formati facendo parte della squadra che dà forza e struttura alla sua azienda”.
Perché dunque è importante la riduzione del cuneo fiscale? Riagganciandomi a quanto scritto prima, la riduzione del cuneo fiscale deve essere attuata in modo da produrre anche una riduzione del costo del lavoro, oltre ad un aumento delle retribuzioni e ciò avrebbe un benefico effetto sul risultato del conto economico aziendale. Per molte aziende ad alto impiego di personale può voler dire passare da un risultato in “perdita” ad un risultato in “utile”, per così ritrovare una posizione sul mercato che consenta loro ed ai dipendenti di avere un futuro. Al contrario, non si otterrebbe lo stesso risultato agendo su IRES ed IRAP abbassando le quali si favorirebbero solo le attività che già fanno utile.
Ciò che non serve è un approccio ideologico al cambiamento che bene è rappresentato da chi sostiene che eliminare la burocrazia sia un’operazione a “costo zero”, non considerando il rovescio della medaglia, cioè le sacche di disoccupazione che si creerebbero. Certo la burocrazia va contenuta e ridotta, ma all’interno di un piano di nuova occupazione per quanti si ritroverebbero “in mobilità”. E soprattutto con un’attenzione crescente alla formazione delle generazioni più giovani, cioè di coloro con attitudini decisamente maggiori, che se inseriti nella pubblica amministrazione potrebbero offrire una salto di qualità all’informatizzazione, mai pienamente realizzata in quel settore. Ricordo inoltre che la burocrazia è generata da un sistema legislativo che ha prodotto troppe leggi e troppo complesse da cui deriva, in ultima istanza, la necessità di “oliare” il meccanismo per renderlo operativo, inevitabile spinta alla corruzione.
Una semplificazione legislativa automaticamente produrrebbe una riduzione della burocrazia e della corruzione, certamente attuata nel tempo, ma se si rimanda sine die, non si otterrà mai nulla. Ricordo che anni fa per curiosità andai a vedere quella che era la “legge finanziaria” dello Stato Francese. Era raccolta in un decimo delle pagine utilizzate per quella italiana. Non mi dilungo a fare la lista dei “desiderata” poiché già ne esistono tante, troppe. E’ compito della politica definirne: la necessità, l’importanza e quindi la priorità, la fattibilità, un piano di attuazione che ne valuti costi, tempi, risultati e, una volta tanto, ne definisca le responsabilità.
Mai come in questo momento l’Italia disporrà di denaro, anche se sotto forma di prestiti, e da come questi finanziamenti saranno investititi dipenderà il futuro del Paese. Ricordo che l’unico soggetto che può fare consistenti investimenti anticiclici è lo Stato. Di solito il privato è ciclico cioè investe quando l’economia va bene e non investe quando l’economia va male. Lo Stato può investire in opere pubbliche: rifacimento e manutenzione strade, manutenzione delle scuole, manutenzione e costruzione di ospedali, opere che rimetterebbero brio all’economia, al Pil, al lavoro, a dare impulso ad un ciclo economico espansivo da cui trarre imposte e tasse con cui alimentare un circuito virtuoso nel rapporto tra spese correnti e spese d’investimento. In conclusione abbiamo bisogno che il governo faccia propria questa frase recentemente pronunciata da papa Francesco, frase che bene riepiloga l’atteggiamento che sarebbe necessario avere nell’affrontare questi problemi: “senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno”.
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Il risultato immediato che ci si attende è un piano organico di azioni finalizzato a ridare impulso alla nostra economia. Almeno questo sarebbe il logico frutto di un momento di ascolto a ventaglio. Ma se ciò non si verificherà, sarà spontaneo chiedersi “cui prodest?”, a chi giova? Oggi la maggior parte delle attività ha un problema di conto economico. Il che tradotto, significa che i ricavi (il fatturato, per semplificare) non coprono i costi e quindi si registra un deficit di bilancio. Un problema economico, serio, che a lungo andare diventerà – per quanti non lo è già ora – un problema finanziario, poiché le imprese non riusciranno più a far fronte con i loro incassi ai pagamenti che devono effettuare. Un effetto semplice da comprendere.
Quindi se il problema è il problema dei ricavi, la soluzione non può che passare dall’aumento dei ricavi stessi, attraverso misure adeguate e di stimolo ai consumi. Dunque, non si tratta di assistenzialismo, ma di creazione di lavoro. E a poco (non dico nulla) serve quanto fatto dal governo per consentire alle aziende di indebitarsi, se in parallelo non c’è un piano di rilancio dell’economia italiana. Certamente uno dei provvedimenti che questo piano organico di azioni deve contenere è la riduzione del cuneo fiscale. E, in proposito, riprendo e sottoscrivo i concetti del prof. Terna espressi di recente su La Porta di vetro1:
La riduzione del cuneo fiscale è una misura strutturale che dà competitività alle imprese e consente anche di riconoscere retribuzioni migliori ai lavoratori, senza gravare in misura doppia sui conti aziendali. Si tratta di un’azione infinitamente più importante della selva di provvedimenti sul lavoro a tempo determinato o indeterminato, a tutele crescenti o più o meno inesistenti. Un’azienda sana, che ha lavorato perché competitiva, non assume o licenzia per capriccio, ma per effetto di valutazioni molto ponderate sul conto economico. Non esiste imprenditore sano di mente che rinunci a cuor leggero a collaboratori che si sono formati facendo parte della squadra che dà forza e struttura alla sua azienda”.
Perché dunque è importante la riduzione del cuneo fiscale? Riagganciandomi a quanto scritto prima, la riduzione del cuneo fiscale deve essere attuata in modo da produrre anche una riduzione del costo del lavoro, oltre ad un aumento delle retribuzioni e ciò avrebbe un benefico effetto sul risultato del conto economico aziendale. Per molte aziende ad alto impiego di personale può voler dire passare da un risultato in “perdita” ad un risultato in “utile”, per così ritrovare una posizione sul mercato che consenta loro ed ai dipendenti di avere un futuro. Al contrario, non si otterrebbe lo stesso risultato agendo su IRES ed IRAP abbassando le quali si favorirebbero solo le attività che già fanno utile.
Ciò che non serve è un approccio ideologico al cambiamento che bene è rappresentato da chi sostiene che eliminare la burocrazia sia un’operazione a “costo zero”, non considerando il rovescio della medaglia, cioè le sacche di disoccupazione che si creerebbero. Certo la burocrazia va contenuta e ridotta, ma all’interno di un piano di nuova occupazione per quanti si ritroverebbero “in mobilità”. E soprattutto con un’attenzione crescente alla formazione delle generazioni più giovani, cioè di coloro con attitudini decisamente maggiori, che se inseriti nella pubblica amministrazione potrebbero offrire una salto di qualità all’informatizzazione, mai pienamente realizzata in quel settore. Ricordo inoltre che la burocrazia è generata da un sistema legislativo che ha prodotto troppe leggi e troppo complesse da cui deriva, in ultima istanza, la necessità di “oliare” il meccanismo per renderlo operativo, inevitabile spinta alla corruzione.
Una semplificazione legislativa automaticamente produrrebbe una riduzione della burocrazia e della corruzione, certamente attuata nel tempo, ma se si rimanda sine die, non si otterrà mai nulla. Ricordo che anni fa per curiosità andai a vedere quella che era la “legge finanziaria” dello Stato Francese. Era raccolta in un decimo delle pagine utilizzate per quella italiana. Non mi dilungo a fare la lista dei “desiderata” poiché già ne esistono tante, troppe. E’ compito della politica definirne: la necessità, l’importanza e quindi la priorità, la fattibilità, un piano di attuazione che ne valuti costi, tempi, risultati e, una volta tanto, ne definisca le responsabilità.
Mai come in questo momento l’Italia disporrà di denaro, anche se sotto forma di prestiti, e da come questi finanziamenti saranno investititi dipenderà il futuro del Paese. Ricordo che l’unico soggetto che può fare consistenti investimenti anticiclici è lo Stato. Di solito il privato è ciclico cioè investe quando l’economia va bene e non investe quando l’economia va male. Lo Stato può investire in opere pubbliche: rifacimento e manutenzione strade, manutenzione delle scuole, manutenzione e costruzione di ospedali, opere che rimetterebbero brio all’economia, al Pil, al lavoro, a dare impulso ad un ciclo economico espansivo da cui trarre imposte e tasse con cui alimentare un circuito virtuoso nel rapporto tra spese correnti e spese d’investimento. In conclusione abbiamo bisogno che il governo faccia propria questa frase recentemente pronunciata da papa Francesco, frase che bene riepiloga l’atteggiamento che sarebbe necessario avere nell’affrontare questi problemi: “senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno”.
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1https://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2020/06/terna02.pdf
Posted on: 2020/06/29, by : admin
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