Addio a Sergio Zavoli, inventò un processo
ma non ne divenne mai il giudice…

di Michele Ruggiero |

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“L’attività dell’intelletto è la più eccellente, poiché l’intelletto è ciò che di più eccellente c’è in noi”. E Sergio Zavoli, in età moderna, ha davvero ben realizzato quanto spiegava ai suoi allievi Aristotele, nella Grecia antica. A 96 anni, uno degli ultimi giganti del giornalismo italiano del Novecento, ha concluso la sua parabola terrena. Lo ha fatto dopo aver contribuito a edificare la storia della radiotelevisione, che per lui ha significato solo e unicamente il marchio Rai (di cui è stato presidente dal 1980 al 1986), come una grande stella del calcio, che indossa una sola maglietta. Un attaccamento alle frequenze di viale Mazzini che per Zavoli, classe 1923, nato a Ravenna, riminese d’adozione, romagnolo atipico, s’iniziò nel Secondo dopoguerra, nell’Italia della Ricostruzione, ma anche della tragedia e del dolore. Il suo banco di prova fu terribile: le radiocronache dell’alluvione del Polesine, a cavallo tra le province di Venezia e Rovigo, nel novembre del 1951. Evento che devastò un’area economicamente già depressa e che causò la morte di un centinaio di persone e centinaia di migliaia senza tetto, parte delle quali andranno ad ingrossare il flusso dell’immigrazione al Nord-ovest del Paese e l’esodo dell’emigrazione all’estero.

Dotato di una voce che sapeva accarezzare chi lo ascoltava e di una presenza rassicurante, Zavoli seppe dare il meglio di sé in età adulta, intellettualmente matura, consacrando in televisione dal 1962 lo sport dei poveri, il ciclismo, trasferendo dalla radio sul piccolo schermo, a ruota degli arrivi sotto lo striscione del Giro d’Italia “Il processo alla tappa”. Era un momento magico anche per chi, ancora bambino, dava forma e sostanza alle biglie in plastica che all’interno contenevano le foto dei ciclisti e con le quali si disputavano tra coetanei eterne sfide al mare, su circuiti improvvisati e scavati nella sabbia con il fondoschiena del malcapitato di turno.

E Zavoli dava forma e sostanza alla “commedia umana” su due ruote. Con signorile garbo e sapienti miscele psicologiche dettate dall’esperienza, portava a galla antipatie sotterranee e velenose in seno alla carovana del Giro, temperamenti focosi (celebre quello dello “stambecco d’Abruzzo” Vito Taccone o dello sprinter Dino Zandegù), campioni e protagonisti per un giorno che insieme a storie di ciclismo sapevano raccontare con la semplicità dell’intercalare dialettico il nostro Paese (il parmigiano Vittorio Adorni, i toscani Bitossi, noto come “cuore matto”, e Mugnaini, i piemontesi Zilioli e Balmanion, il lombardo Michele Dancelli, il veneto Adriano Durante, e celebre fu l’intervista alla “maglia nera” del Giro Lucillo Lievore, in fuga sul serio…). Infine, pezzo forte del repertorio, andavano in onda i mitici dualismi di cui l’Italia, dai tempi di Girardengo-Binda, Binda-Guerra, Coppi-Bartali, si nutriva: a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, emerse quello tra Felice Gimondi e Gianni Motta, mentre il mondo delle corse era dominato dal “cannibale” Eddie Merckx. La “commedia umana” del Processo alla Tappa, come la produzione dantesca, era arricchita poi di “rime” d’autore: erano le presenze di grandi firme del giornalismo, da Gianni Brera a Bruno Raschi, da Sergio Neri e Giampaolo Ormezzano, e di ex campioni di ciclismo, su tutti Gino Bartali con il suo leggendario incipit “Gli è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”.

Sergio Zavoli raccontò nel 1972 anche l’Italia in orbace, quella del Ventennio, con una trasmissione che già nel titolo “Nascita di una Dittatura” costrinse per sei puntate gli italiani a guardarsi dentro, a riconoscere una genitorialità dalle mille sfaccettature e di cui non ci si poteva dire estranei. Con le interviste, che riattaccavano le emozioni alle pagine di storia, Zavoli recuperò personaggi sprofondati in un cono d’ombra, come per esempio Amadeo Bordiga, cofondatore del Partito comunista d’Italia e primo segretario del partito nato a Livorno nel 1921 da una costola del Partito socialista, e Alfonso Leonetti, dissidente trotzkista espulso proprio da quel Pcd’I, che aveva fondato, nel 1930. Altri tra i tanti, dall’ex presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, al leader socialista Pietro Nenni, all’azionista Ferruccio Parri, primo Presidente del Consiglio del dopoguerra, al futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, al comunista Umberto Terracini, allo scrittore ed esponente del Partito Sardo d’Azione Emilio Lussu, a donna Rachele, moglie di Benito Mussolini, diedero un illuminante spaccato del totalitarismo all’italiana. Alla fine del 1989 e per 18 puntate fino all’11 aprile del 1990, Sergio Zavoli portò le telecamere nelle viscere del terrorismo, degli Anni di Piombo, della Strategia della tensione. Furono 45 ore di trasmissione cui non mancò – in alcuni passaggi – una sorta di onesta autoanalisi collettiva dei nemici sconfitti dalla Democrazia, senza quel protagonismo (e in un totale e assoluto rispetto delle vittime) destinato purtroppo alla ridondanza in anni successivi.

Il lascito di Sergio Zavoli, senatore per quattro legislature, quindi, è nell’energia del suo intelletto che da oggi può diventare patrimonio comune, esempio di capacità nell’aprire sempre nuove finestre sulla cronaca come sull’indagine storica ora attraverso l’antropologia, o la sociologia, la psicologia, l’economia, la politica, la filosofia, in un continuo mutare dei bisogni della “commedia umana”.




Posted on: 2020/08/05, by :