Il diritto di avere torto e il suo abuso

di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |

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La convinzione che il nostro pensiero sia giusto è tanto naturale, quanto scontato. Quando però tale convenzione diventa ossessiva, viene meno il pensiero reso famoso da Voltaire “Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”, che in termini economici si può grossolanamente tradurre in “tutti devono poter sviluppare la propria idea di benessere”, ma passando dal mondo delle idee alla realizzazione del welfare, si dovrebbe aggiungere “senza danneggiare gli altri” o in termini attuali “senza chiedere troppi contributi forzosi agli altri”.

Se la nostra società riconoscesse un minimo di valore all’aforisma del filosofo parigino sarebbe più facile prendere coscienza della possibilità di aver torto, senza che ciò risulti negativo per il progresso, quale momento del dialogo tra i portatori di idee (e ciò costituisce un arricchimento del dibattito). Se si proseguisse nell’ambito della speculazione si dovrebbe osservare che chi è sicuro di avere ragione, non ha bisogno di confrontarsi con quelli che hanno torto, ma l’arroganza che porta a pensare che le nostre idee siano corrette induce a non considerare il pensiero degli altri, evitando il problema di discernere il vero dal falso. Se ci spostiamo sul terreno economico (cambiando verbo, perché in questo contesto non pare appropriato parlare di “speculazione”), è quanto mai necessario confrontarsi (gli anglosassoni parlano di benchmarking) con soluzioni diverse anche se in apparenza sbagliate, ma che solo l’esperienza potrà giudicarle tali. Pensieri un po’ fuori moda, quando l’unica cosa che determina il successo è ottenere contributi.

Il rischio di offrire spazio all’inefficiente

Se conoscessimo ex ante l’utilità delle cose e delle azioni, non vi sarebbe la possibilità di fallire che, invece, permette una selettività in grado di premiare l’efficiente e di eliminare lo spreco. La mano invisibile offerta dal libero mercato dovrebbe espellere le aziende improduttive, ma i processi di globalizzazione e l’intrecciarsi di infinite variabili, specie nel settore ad alta valenza sociale, tale concetto deve essere rapportato alle circostanze. Per il funzionamento della società sono diverse le attività che, indipendentemente dal risultato economico-finanziario, non possono essere espulse dal sistema, così il licenziare lavoratori non costituisce sempre una accelerazione verso il rinnovamento, perché certe professionalità vanno conservate e tutelate. Il prendere aprioristicamente posizione per una o l’altra posizione invece è sicuramente fazioso e non aiuta la razionalizzazione dei processi.

Non si può, ad esempio, lasciare senza copertura sanitaria una parte della popolazione o non assicurare la costante preparazione di professionisti indispensabili per garantire continuità alla filiera produttiva/erogativa e ora, con l’esperienza del Coronavirus, occorre “mantenere in sopravvivenza” aziende produttrici di beni che, all’occorrenza, si possono rilevare indispensabili (concetto più evoluto del predisporre magazzini da dove la merce di valore facilmente commerciabile è destinata a “sparire” nel tempo). L‘esempio delle mascherine è solo il più eclatante, ma occorrerà interrogarsi su cosa è indispensabile e garantirne la disponibilità a prescindere dal contingente, indipendentemente dai costi.

Purtroppo questa necessità, imposta dalla virulenza di Covid-19 l (dove, dopo anni di austerity si è potuto tornare spendere di tutto e di più), rischia di dare spazio all’inefficiente, o peggio ancora generare una serie di “appetiti” riflettenti spesso interessi particolareggiati e l’arrivo di 209 miliardi scatenerà ogni forma di rivendicazione in tutti i nodi della rete istituzionale e organizzativa: il poter guadagnare senza restituire benefici è il sogno, non solo di organizzazioni malavitose, ma di tanti burocrati e imprese decotte. Il diritto di avere torto va così a supportare i vantaggi dello sbagliare ad oltranza o nel perseverare in soluzioni irrazionali.

Le nostre società vivono sempre più nel dilemma di dover far sopravvivere imprese non economicamente giustificabili, ma la cui assenza potrebbe nuocere agli equilibri sociali: annullare la mano invisibile del mercato, il diritto di fallire o il poter licenziare, rischia di imbalsamare il tessuto produttivo oltre il sopportabile, con risvolti non tollerabili sotto il profilo etico dell’equità distributiva. Viene da chiedersi se siamo ancora in grado di gerarchizzare gli interventi non solo in base a legittime ed effettive esigenze ma con una visione prospettica del futuro.

Fallimento e rilancio delle imprese

Dalla centralità delle imprese nel periodo successivo alla rivoluzione industriale, si sta passando alla centralità dei potenziali bisogni cui deve orientarsi la produzione: il passaggio ha sottolineato come, per produrre, non è più sufficiente una microrganizzazione “autarchica”, ma una visione a rete, volta a promuovere in forma stabile e continuativa, condizioni favorevoli al miglioramento della qualità della vita. Come incentivare e rinforzare iniziative spontanee, stabilendo modalità e dimensioni delle sovvenzioni (e non arroccarsi solo nella difesa dell’esistente) sarà un filone di studi da sviluppare. Operativamente, l’esistente tende ad acquisire una specie di “obbligo di esistere”, ma ciò non garantisce razionalità, anzi rischia di negarla.

All’interno delle aziende pubbliche tradizionali le varie componenti (fornitori compresi) si sentivano altamente tutelate (a riprova, è lo scarso livello di mobilità del personale, misurato sia come cambio di società od ente, sia come cambio di luogo fisico di lavoro, sia, soprattutto, come capacità di adeguamento a nuove tecniche produttive) e, di conseguenza, legittimate ad avanzare richieste con un ritmo superiore rispetto ad altri settori. Tale atteggiamento presentava anche un risvolto positivo: le richieste tendenti a sollecitare maggiori fondi permettevano, infatti, una crescita della domanda complessiva e una migliore qualità dei servizi erogabili. La sopravvivenza scontata ha, però, provocato altre richieste meno nobili che sfruttando la particolare tutela giuridica e confidando che la classe politica dominante non potesse reggere un braccio di ferro, hanno portato a condizioni di diseconomicità non sopportabili nel lungo periodo.

Si sono così venute a creare inefficienze, sprechi, disfunzioni e opportunità di vantaggi di parte, sostenibili solo con ulteriori finanziamenti o con l’assunzione di nuovo personale; provvedimenti utili per creare nuova domanda e ridurre pressioni contro la disoccupazione, ma non per migliorare la funzionalità della società nel suo complesso. La problematica si manifesta in forme palesi allorché lo stesso obiettivo di fondo delle strutture pubbliche (che rimane il benessere collettivo e il progresso della società), perde la sua posizione preminente per lasciare il posto ad aspettative che si concretizzano in più centri di potere tra loro sovrapposti e in costante conflitto. Il riscontro della reale utilità delle attività deve prendere il sopravvento all’egida del diritto a sopravvivere o allo schermarsi dietro cavilli burocratici (come la tutela della privacy) per coprire interessi poco nobili.

Comportamenti sempre più “feudali”

Una condizione che può riportare l’esistente all’esigenza d’assicurare adeguate prestazioni ai cittadini è offerta dalla possibilità d’individuare strumenti valutativi dell’outcome e dell’impact prodotto e dal benchmarking. Ciò che deve esistere, presuppone lo sviluppo di metodologie e di strumenti d’indagine orientati alla professionalità, all’adeguatezza tecnologica, alla funzionalità operativa, nonché alla loro applicazione pratica tramite analisi quali-quantitativa (concetti trascurati dai “legiferatori seriali”).

Il tentativo di trasformare le strutture pubbliche in vere e proprie imprese doveva ridare efficienza manageriale, ma non ha individuato una “vision” di questi enti. Il primo imprescindibile passaggio è l’associare agli scopi politico-sociali le competenze manageriali, indirizzando il tutto al fine ultimo per cui viene creata un’attività, anche oltrepassando i vincoli economici, ma senza mai ignorarli pretestuosamente. Nel proporre una simile visione non si può dimenticare come, se da un lato non esiste sempre una “mano invisibile” che garantisca automaticamente l’ottimizzazione nell’uso delle risorse, dall’altro il trascurare l’uso razionale delle risorse porta inevitabilmente al caos. Il non assoggettarsi automaticamente alle forze della selezione naturale, porta alla possibilità di accordo tra più contraenti per scaricare sulla società le singole inefficienze.

La razionalità sociale, intrinseca dell’arte politica, non sempre permette di rilevare tempestivamente le inadeguatezze strutturali e di sostituire, con nuove soluzioni, l’esistente obsoleto culturalmente, prima ancora che tecnologicamente. Si creano, di conseguenza, condizioni per cui, il singolo gruppo ben organizzato (lobby) abbia molte più possibilità, rispetto alla comunità di farsi valere, rispondendo tempestivamente ad interessi altamente remunerativi nel breve tempo. La società deve cioè tornare ad essere orientata alla sostanza degli effetti delle azione intraprese, se vuole configurare meccanismi atti a rispondere alle esigenze e alle ristrettezze che i limiti economici impongono.

La rapidità d’azione non deve far venir meno la possibilità di tutela e di control cui non può rinunciare. Sarebbe semmai da verificare come potere esecutivo e legislativo siano singolarmente in grado di influenzare la realtà e di progettare e indirizzare il futuro della società. Il potere esecutivo controlla direttamente le nomine ai vertici dell’amministrazione e, di conseguenza, gli amministratori sanno che il loro successo può dipendere non solo dal soddisfacimento delle aspirazioni collettive, ma dall’ossequiare chi lo ha nominato, fino al punto di far preferire un sorteggio casuale, eventualmente limitato ad un albo di professionisti, che non una nomina.

Soluzione accettabile finché gli organi chiamati a vigilare non siano eccessivamente compromessi con chi devono controllare, rinunciando però ad una vision comune. In Italia sono addirittura rari i casi in cui si chiede conto ai manager, ai revisori e ai valutatori degli enti pubblici, dei deficit accumulati e nascosti nei loro bilanci: finisce così che i manager di enti in dissesto percepiscono il massimo degli incentivi anche quanto le cose vanno male. L’aver torto ha finito per fare comodo a molti. Dunque, sono diversi i vantaggi derivanti dal non rispettare i principi, naturali prima ancora che legislativi, governanti il sistema, confondendo così la facoltà di esprimere posizioni di dissenso con l’abusare nel difendere posizioni di comodo.




Posted on: 2020/08/11, by :