Nagorno-Karabakh: “preda” di Russia e Turchia nuovo ostaggio della guerra per procura

di Germana Tappero Merlo |

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Fra le varie lezioni della storia del XX secolo vi è certamente quella secondo cui ogni conflitto che supera una generazione è condannato a perdurare per generazioni. Non importa se i tempi e i modi per condurre le nuove guerre sono cambiati, magari abbreviati i primi e più tecnologizzati i secondi. Quella lezione pare avere una conferma pressoché quotidiana dalle cronache delle più recenti relazioni internazionali. Ne è un ultimo esempio la ripresa del mai sopito conflitto per e nel Nagorno-Karabakh, fra Armenia ed Azerbaigian.

Scontro tra nazionalismo azero e irredentismo armeno

Una lotta che il Nagorno-Karabakh porta avanti da almeno trent’anni per la sua indipendenza, che affonda le sue origini in tempi remoti, dagli imperi zarista, persiano sino a quello ottomano, e che nel 1921 subì l’ennesimo e irreparabile sopruso: l’allora Commissario per le Nazionalità della nascente (vedrà la luce nel 1922) Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, Iosif Vissarionovic Dzugasvili, noto come Stalin, fece di quella regione armena, a maggioranza etnica armena e di fede cristiana, una enclave azera annessa all’Azerbaigian. Quest’ultimo, a maggioranza musulmana sciita e soprattutto turcofono, iniziava però una pesante discriminazione nei confronti degli armeni, già vittime del genocidio da parte dei Turchi, ancora impero ottomano, nel 1915, e fu solo con la dissoluzione dell’apparato politico, militare e burocratico dell’Unione Sovietica, nel 1991, e tramite un referendum, che il Nagorno-Karabakh ribadì il suo diritto all’autodeterminazione e si rese autonomo, portando con sé altri 7 distretti azeri.
Decisione che non piacque e continua a non piacere al governo di Baku, men che mai al suo attuale presidente Ilham Aliyev. Da qui, scontri militari, di varia intensità, più o meno lunghi e ripetuti nel tempo (anche a luglio di quest’anno), con tentativi da parte dell’Osce e di altri interlocutori internazionali, di risolvere diplomaticamente, una volta per tutte, la questione. Tentativi sempre pressoché fallimentari. La conflittualità fra i due, quindi, permane ed è riesplosa, per irrigidimento delle rispettive posizioni, ossia il nazionalismo azero e l’irredentismo armeno.

Gas e oro nero dietro la “fratellanza” di Ankara con l’Azerbaigian

Questo, almeno, sembra essere l’oggetto su cui ruota la persistente e generazionale conflittualità fra Armenia e Azerbaigian per la questione del Nagorno-Karabakh. Ma si tratta, anche ora, del più semplice movente. Il quadro è decisamente molto più complesso, tanto che la pretesa indipendenza di una regione dalle dimensioni del Molise (non più di 4,5 mila km quadrati), in quell’area geografica di strategica importanza, sta convogliando interessi politici, di dominio, uomini e mezzi militari delle più agguerrite potenze regionali e mondiali, dalla ex ‘madrepatria’ Russia, alla Turchia, all’Iran, sino alla Cina, senza peraltro escludere, secondo alcuni analisti, una regia occulta dietro al turco Erdogan anche degli stessi Stati Uniti.
I rapporti di Ankara con l’Azerbaigian sono di grande fratellanza. Lo stesso Erdogan ha dichiarato in questo giorni, che “Turchia e Azerbaigian sono una nazione e due stati”, ribadendo il legame fraterno che li unisce, e che trova conferma da anni anche nelle ottime relazioni commerciali. La Turchia rappresenta infatti la principale rotta per il petrolio e il gas di cui abbonda l’Azerbaigian, garantito dal tracciato degli oleodotti Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC) e South Caucasus Pipeline (SCP). Entrambi hanno sancito la fine del monopolio russo sul trasporto di risorse energetiche dal Mar Caspio.
Un cambio di rotta, quindi, per le ricchezze dell’Azerbaigian che ha dimostrato non solo autonomia energetica da Mosca, ma anche possibilità di arricchimento e di nuovi rapporti economici e commerciali al di fuori del suo controllo. La stessa compagnia petrolifera azera SOCAR rappresenta il maggior investitore estero in Turchia. Se i fratelli azeri sono in difficoltà, quindi, Ankara risponde. Ed ora che anche la Turchia pare in difficoltà, si gioca la carta azera.

La regia-ombra degli Stati Uniti a sostegno del “sultano” turco

La retorica di Erdogan, di questi giorni, molto dura nei confronti dell’Armenia (‘la più grave minaccia alla pace nella regione’) trova giustificazione nelle difficoltà in cui il presidente turco si è ritrovato negli ultimi mesi in scenari come quello siriano, libico e del Mediterraneo orientale, dove ha dovuto ripiegare di fronte alle contromosse russe e le minacce di sanzioni da parte dell’Unione Europea. Minacce che Erdogan non può permettersi di ignorare come un tempo, date le difficoltà di consenso e di gestione dell’ordine pubblico interno, per crisi economica, guerre prolungate e pandemia. Tanto vale, quindi, giocarsi la carta azera e un altro possibile conflitto, sempre per procura, il terzo, dopo appunto Siria e Libia. O Erdogan non impara dalle lezioni apprese oppure, come suggerito da ormai parecchi osservatori, fa il gioco sporco per interessi fuori da quelli prettamente personali e più addentro a quelli di potenze esterne, come gli Stati Uniti.
Questi ultimi, sebbene abbiano invocato il cessate il fuoco e solo in apparenza distratti dalla campagna presidenziale e dalla pandemia, avrebbero puntato sul più potente alleato in sede Nato per intervenire in quegli scenari allo scopo di contenere la Russia e boicottare le pretese della Cina e della sua Via della Seta anche in quella regione, da cui importanti contratti di Pechino con Baku per infrastrutture ferroviarie e portuali. D’altronde l’occasione ad Erdogan (e a questo punto, ai suoi sponsor) gli è stata posta dal responsabile di tutti i suoi più recenti guai, ossia la Russia.

Gli interessi sul Caucaso meridionale di Santa Madre Russia

Dal 21 al 26 settembre si sono svolte, infatti, in territorio armeno e nel Caspio, le esercitazioni militari Kavkaz 2020 (Caucaso 2020), a guida russa, con la partecipazione di Armenia, Bielorussia, Cina, Iran, Myanmar e Pakistan. Esercitazioni consuete e nemmeno di grande potenza, ma dal messaggio molto chiaro, ossia ribadire l’interesse di Mosca per il Caucaso meridionale. Un messaggio diretto appunto ad Azerbaigian e alla Georgia. Con quest’ultima vi sono tensioni risalenti al 2008 per l’Ossezia e l’Abkhazia, mentre l’Azerbaigian rappresenta per Mosca una possibile minaccia alla stabilità regionale e ai suoi interessi di dominio nel Caucaso, visto il forte riarmo azero che, nel 2014, ha segnato un aumento del 2500% in 7 anni, con un trend ancora in continua crescita. Forte di questa prepotenza militare, l’Azerbaigian avrebbe iniziato a riprendersi alcuni territori persi nell’ultimo grande scontro con l’Armenia nel 2016. Le autorità azere, seppur invitate a partecipare alle manovre Kavkaz 2020, hanno declinato l’invito ma, fatto più grave, hanno da tempo negato il sorvolo dei propri cieli da parte degli aerei delle forze russe di ritorno dalla Siria. Un rifiuto che pare non sia piaciuto a Mosca.
Da qui la decisione forse più grave strategicamente per Putin, ossia quella di condurre le esercitazioni fuori dal territorio russo, appunto in Armenia (che ospita l’unica base militare russa in quella parte di Caucaso) e non molto distanti dai confini con l’Azerbaigian. Un’azione di forza, dettata anche dall’irritazione di Putin per il diniego a partecipare alle manovre da parte di Kazakistan, Tajikistan e Kyrgyzstan, tutti membri del CSTO, l’equivalente russa della Nato. Una posizione di debolezza di Putin, quindi, subito colta dall’Azerbaigian, irritata dalla sfrontatezza russa: all’indomani delle esercitazioni Kavkaz 2020, attraverso l’uso combinato di forze di terra e aria, droni e missili tattici, Baku ha colpito infrastrutture civili e popolazione armene.

Combattenti siriani dalla Turchia verso Baku

Il conflitto sembra ora acutizzarsi, con implicazioni ancora tutte da definire, soprattutto per la Russia che con l’Armenia ha un trattato di difesa reciproca, per cui se attaccata militarmente, Mosca deve intervenire. Le implicazioni potrebbero coinvolgere addirittura l’Iran, da sempre in posizione di paciere fra Armenia ed Azerbaigian (vista anche la maggioranza sciita azera), ma che condivide con gli armeni trattati di cooperazione militare e, non da meno, ne ha appoggiato accordi con il Libano per traffici di carattere commerciale e per la difesa.
Il coinvolgimento militare turco, sebbene non confermato, ha di fatto dato voce dell’invio da parte di Ankara di 1500 combattenti siriani a supporto dell’Azerbaigian (proprio dalla Siria, terra che ospitò la diaspora armena nel 1915), così come, nelle ultime ore, un F-16 turco avrebbe abbattuto un Sukoi-Su armeno. Insomma, questa regione, ponte fra Mar Caspio e Mar Nero, crocevia fra Asia Centrale, Medio Oriente e Russia, attraverso il quale i tracciati per il trasporto di petrolio e gas hanno visto aumentare di molto la portata strategica, potrebbe diventare l’altro grande fronte di un conflitto fra Russia e Turchia. È la geopolitica dei flussi e del controllo dei tracciati attraverso cui merci, idrocarburi, uomini e mezzi passano e definiscono contendenti e regole di un sanguinario ed estenuante gioco di guerra.
Il Nagorno-Karabakh paga con la guerra la propria collocazione geografica, e funge da tampone per le ambizioni di controllo ed espansione di Russia e Cina. Così avviene per altre regioni del mondo, dall’Iraq allo Yemen, per citare i più noti, sino allo sconosciuto Gilgit-Baltistan, quella regione del Pakistan ora contesa con l’India e ambita dalla Cina per il completamento della Via della Seta verso i porti della costa pakistana, e probabilmente scenario di un altro più prossimo conflitto. Sono tutti punti di passaggio e di incrocio, dove confluiscono anche le ambizioni e le frustrazioni delle potenze regionali e mondiali di questa lunga e fortemente instabile era post-guerra fredda ancora alla ricerca di regole per un suo riordino globale.




Posted on: 2020/09/30, by :