A trent’anni dalla caduta del Muro:“Europa-nazione” vs “Europa-federazione”?

di Davide Rigallo |

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L’Europa nata dalla caduta del muro di Berlino vede, oggi, sorgere su molti dei suoi confini interni ed esterni nuovi muri, nuove barriere, nuove “cortine” di filo spinato messe a proteggere le nazioni europee da un nuovo “pericolo”: gli ingressi dei migranti dei paesi terzi. A trent’anni di distanza dall’evento che permise la riunificazione delle due Germanie, la costituzione dell’Unione europea, l’affermazione della libera circolazione di merci e persone tra i suoi stati, l’Europa sembra precipitata nuovamente in una logica identitaria fatta di “nazioni” e “frontiere” ritenute intangibili. Se non vuole essere retorica, la ricorrenza di questo trentennale offre l’occasione per misurare lo scarto che si è affermato, in questi tre decenni, tra le aspettative di allora e l’odierna realtà politica dell’Ue: per comprendere, in altre parole, come e quanto il progetto dell’Unione si stia pericolosamente ribaltando nel contrario dei suoi principi fondanti.

Dal 1961 al 1989, per ventotto anni, il muro di Berlino è stato il segno più evidente della “frontiera europea”. Figlia degli equilibri dell’Europa uscita alla seconda guerra mondiale, essa si collocava “al centro” della mappa continentale, tagliandola verticalmente in una contrapposizione est ovest passata alla storia come guerra fredda. Con la caduta del muro e la repentina dissoluzione del blocco orientale questa frontiera è venuta meno aprendo prospettive di riunificazione territoriale e di coesione sino a poco prima impensabili. Il disegno di un’Europa unita e federale, fondata sullo stato di diritto e sulle libertà fondamentali della persona, è parso così improvvisamente percorribile dando l’abbrivio a un processo di integrazione politica che sarebbe dovuto sfociare nell’approvazione di una vera e propria costituzione europea. Tra il 1992 – anno del Trattato di Maastricht, da cui propriamente nacque l’Ue – e il 2004 – quando gli allora 27 stati aderenti sottoscrissero a Roma la versione provvisoria della Costituzione europea (1) – si consolidano i capisaldi della confederazione europea: l’assetto dei suoi poteri istituzionali, il sistema Schengen che abolisce i controlli alle frontiere interne degli stati aderenti, la moneta unica adottata inizialmente da dieci paesi, la progressiva cessione di sovranità da parte degli stati su molte materie. Parallelamente, nei paesi dell’ex blocco sovietico matura quella “volontà di ritorno all’Europa” che costituirà la condizione più forte per il rapido allargamento a est dell’Unione. Di questa volontà, il “gruppo di Visegrád” (2) – che oggi agisce con valori e finalità ben differenti da quelli originari – è forse l’espressione più strutturata, consapevole, allora come oggi, che un mancato ingresso nell’Ue avrebbe significato un riassorbimento degli stati orientali nell’orbita della potenza russa. Proprio per evitare questo rischio, all’allargamento a est dell’Ue (organizzazione sovranazionale “civile”) corrisponderà sempre un simmetrico allargamento della Nato, ossia dell’organizzazione “militare” del Patto atlantico che, in questo modo, avrà modo di prolungare ed estendere il proprio impianto nel nuovo assetto europeo.

Il punto di arresto di questa fase si ha nel 2005, quando il progetto di Costituzione europea naufraga improvvisamente di fronte agli esiti negativi dei referendum di Paesi Bassi e Francia. La mancata ratifica del Trattato costituzionale è il primo atto di un’involuzione politica in cui i principi originari del progetto europeo sembrano perdere credibilità lasciando spazio a finalità e strategie che riprendono, mutatis mutandis, logiche del periodo antecedente alla caduta del muro di Berlino. Ben inteso: la bocciatura della Costituzione europea non ha significato il venir meno del percorso di unificazione europea (la Romania e la Bulgaria vi aderiranno nel 2007, la Croazia nel 2013). Piuttosto, essa segna un cambio di paradigma che ridurrà di molto gli sforzi per realizzare un’Europa autenticamente federale (gli Stati Uniti d’Europa) rafforzando, per converso, i poteri degli organi intergovernativi (il Consiglio europeo) e degli stati. In questa nuova fase, la solare spinta europeista degli anni novanta sembra incrinata di fronte alla gestione di fenomeni complessi, quali, ad esempio, l’accresciuto potere politico e militare della Russia, le differenti velocità di sviluppo economico degli stati, le pressioni migratorie dagli stati terzi. Allo stesso tempo, negli stati di nuova acquisizione la “volontà di ritorno all’Europa” va acquisendo sembianze molto differenti da quelle originarie, determinate, in larga misura, dal prevalere di forze politiche nazionaliste su partiti di ispirazione socialdemocratica. In questo mutato contesto, il “gruppo di Visegrád” comincia a esercitare un potere condizionante sugli altri stati che trova la sua maggiore espressione nella sua riluttanza verso le politiche di asilo e accoglienza adottata dalla Commissione europea. Con la crisi dei migranti del 2015-2016, l’atteggiamento dei paesi di Visegrád arriverà addirittura a mettere in crisi uno dei capisaldi dell’Ue, quello della libera circolazione delle persone tra i confini interni degli stati europei, segnando un momento di forte allontanamento dal disegno politico che si era immaginato per l’Europa dopo la caduta del muro di Berlino. Emblematico di questo scarto è la rigida posizione dell’Ungheria: lo stato che per primo, nel 1989, aprì le proprie frontiere per consentire l’espatrio dei tedeschi dell’est in Austria, diventa ora il più agguerrito rivendicatore della chiusura dei confini ai migranti, arrivando a sospendere Schengen e a costruire muri sul suo perimetro esterno. Quasi una nemesi rovesciata del progetto originario di Federazione europea.

Tuttavia, al di là delle posizioni chiaramente nazionaliste di questi paesi, è il senso stesso del processo di integrazione europea a risultare differente rispetto a quello immaginato dopo il 1989 e perseguito fino al choc referendario del 2005. In maniera palese o sotterranea, con sfumature spesso diverse, molte forze politiche sembrano guardare all’Ue sempre di più in una prospettiva identitaria e chiusa, come a un’organizzazione internazionale che necessita, su molti ambiti, di essere gestita come una “nazione” di dimensioni continentali, pena la sua incapacità di risultare efficace o, peggio, la sua dissoluzione. In maniera spesso pudicamente inconfessata, al disegno di una Federazione europea, capace di garantire i diritti fondamentali della persona e i rapporti solidali tra gli stati, si sta infatti sovrapponendo quello di una “Europa-nazione” con una frontiera esterna ben controllata, un sistema militare di difesa autonomo, un complesso uniforme di regole e una specifica identità culturale. La “frontiera europea”, che nel periodo della guerra fredda abbiamo visto collocarsi al centro del continente, appare ora strategicamente tracciata lungo il suo perimetro esterno, a segnare il limite con ciò che attualmente non è Europa: la Russia, la Bielorussia, l’Ucraina e la Moldavia a est; il Medio Oriente e il Nordafrica a sud. E il rafforzamento militare per il suo controllo sembra sfruttare – in maniera surrettizia alla luce dei dati complessivi (3) – l’emergenza data dalle pressioni migratorie, ora additate come “pericolo” per la sicurezza dei territori europei.

“Frontiere” “nazioni”: l’odierno contesto politico europeo sembra dunque recuperare, in forme talvolta mascherate, gran parte del lessico e del peso ideologico che queste parole hanno avuto nelle strategie della guerra fredda, prima della caduta del muro di Berlino. Troppo spesso, infatti, questi due termini compaiono in discorsi che si dichiarano “europeisti”. Apparentemente contraddittori, essi trovano infatti una sintesi nella visione di un’Europa unita e forte, unica possibile strada di sopravvivenza in un contesto ferocemente globalizzato. Si tratta di una visione in cui libera circolazione, diritti fondamentali, cittadinanza europea, principio di sussidiarietà, coesione territoriale faticano a trovare un loro giusto spazio e, soprattutto, una loro prospettiva. Si tratta, soprattutto, di una concezione che, se non opportunamente corretta, contiene un rischio esiziale: quello di rendere l’Ue una rinnovata espressione negativa del bisogno di unità europea, come scriveva Luigi Einaudi nel secolo scorso, riferendosi all’imperialismo tedesco tra le due guerre mondiali. Esattamente il contrario, cioè, di ciò per cui l’Unione europea è nata.


1) Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004 e pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 16 dicembre 2004. Il testo in versione italiana è consultabile al link: https://europa.eu/european-union/sites/europaeu/files/docs/body/treaty_establishing_a_constitution_for_europe_it.pdf.
2) L’espressione Gruppo di Visegrad indica l’alleanza tra quattro paesi dell’Europa centrale (Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca e Ungheria), siglata nel 1991 per preparare il loro ingresso nella futura Unione europea.
3) Nel 2018, solo il 4,4% della popolazione complessiva dell’Ue risulta immigrata da Paesi terzi. Per un quadro statistico sugli ingressi e le presenze di migranti negli anni 2017 e 2018 si veda: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Migration_and_migrant_population_statistics/it




Posted on: 2019/11/09, by :