“Cooperazione sanitaria”: proviamo a ripartire dai Comuni
di Davide Rigallo |
| Con l’espressione “cooperazione sanitaria” si indica uno degli ambiti di maggior impegno in cui Stati, poteri locali e organizzazioni sovranazionali sono chiamati ad agire per il raggiungimento dello sviluppo sostenibile del pianeta. Nell’Agenda 2030, approvata nel 2015 dalle Nazioni Unite, l’assicurazione della salute e del benessere per tutti e per tutte le età costituisce infatti il terzo obiettivo1, dietro la lotta alla fame e la lotta alla povertà. A dispetto di questa importanza, nell’attuale emergenza Covid-19 di cooperazione sanitaria si è sentito parlare poco o nulla, come se non fosse una priorità d’azione, come se non fosse un doveroso abito mentale non soltanto per i governanti, quanto per gli stessi leader di partito, sindacati, associazioni imprenditoriali.
I motivi di questa omissione sono molteplici. Il perdurare di una visione “verticale” della cooperazione allo sviluppo, che si muoverebbe dal Nord “ricco” al Sud “sottosviluppato”, secondo quanto teorizzato da leader socialdemocratico tedesco Willy Brandt nel celebre rapporto North-South: A Survival Program del 1980, rende difficoltoso, se non ostile, la presa di coscienza delle interconnessioni che sono alla base, oggi, di molti fenomeni naturali e sociali (dalle emergenze ambientali, alle migrazioni e alle epidemie, per limitarsi alle ultime e alle più note).
Termini come “aiuto” o “sviluppo” hanno, infatti, assunto una forma “circolare” in cui la direzione non è più scontata. La linea orizzontale tracciata da Brandt quarant’anni or sono, tende sempre di più a variare, in alcuni casi addirittura a capovolgersi. Lo stiamo tragicamente constatando nella pandemia in corso, dove molti Paesi europei (larga parte del “nord” di cui parlava appunto Brandt) sono diventati oggetto, e non più soggetto, di aiuto e cooperazione. Del resto, carenza di strumenti e finanziamenti scarsi per la “cooperazione sanitaria” sono tra i fattori che hanno contribuito a rallentare la ricerca in ambito epidemiologico negli anni che hanno preceduto l’epidemia: almeno dal 2015, quando l’allarme per i rischi di una potenziale prossima pandemia era stato lanciato da più autorevoli voci. Oltre alla perdurante visione “verticale” della cooperazione, il pregiudizio di pensarla nelle agende politiche di governi e forze politiche come “accessoria” o “opzionale”, le ha tolto le risorse economiche necessarie a sviluppare quelle azioni preventive che, inevitabilmente, necessitano di “scambio” e “condivisione” (di esperienze, di risorse, di bisogni, di risultati). Il prezzo – elevato – che si sta pagando è sotto gli occhi di tutti.
Ne consegue che un investimento massiccio nella “cooperazione sanitaria” è quanto mai urgente. Non occorre attendere la fine della fase emergenziale, giacché “scambio” e “condivisione” di prassi e conoscenze sono iniziative indispensabili proprio per far fronte all’emergenza. I limiti imposti alla mobilità delle persone non debbono servire da pretesto per proseguire nell’immobilismo: lo sviluppo tecnologico nelle comunicazioni si sta rivelando uno strumento essenziale che permette comunicazioni e valutazioni a distanza senza bisogno di muoversi e, in questo caso, senza provocare la diffusione del virus. Se è vero che non esaurisce un progetto di cooperazione, certamente può prepararne le basi e accompagnarne lo sviluppo. Parallelamente, per riavviare la “cooperazione” nelle opportune dimensioni e con l’obiettivo della salute non occorre aspettare un placet dall’alto, ossia dai poteri centrali degli Stati, ma è possibile cominciare da una dimensione di prossimità, per esempio dai Comuni.
Un’utopia? Non direi. I Comuni rappresentano le amministrazioni a più diretto contatto con i bisogni delle comunità. Nell’emergenza Covid-19 in corso, le amministrazioni comunali hanno vissuto la tragica situazione di dovere rispondere alla diffusione del contagio con “misure di contenimento sociale” che si sono tradotte, quasi sempre, in limitazioni e divieti alla mobilità dei propri cittadini. Se questo costituisce forse l’aspetto più appariscente – e più difficile – del ruolo svolto dai sindaci, meno conosciuti sono i numerosi provvedimenti che hanno adottato per modulare i servizi essenziali alle circostanze. Si tratta di servizi assistenziali, informativi, educativi, di supporto economico, in molti casi destinati alle categorie di persone più a rischio o quelle di fasce più deboli e attivati in sinergia con i soggetti dell’associazionismo solidale. Si tratta, ancora, di un grande lavoro di amministrazione responsabile che, nel suo complesso, ha contenuto il rischio che l’emergenza sanitaria fosse percepita (e affrontata) come una questione di ordine sociale, riconducendola al suo obiettivo primario: la tutela della salute dei cittadini.
Ma se si vuole che i provvedimenti siano utili oltre i confini della propria comunità, diventa fondamentale un’operazione di più ampio respiro, che premi davvero il senso di cooperazione sanitaria: le misure e i servizi attivati dai Comuni italiani in questa fase emergenziale devono diventare elemento di scambio con realtà omologhe di altri paesi, europei e non solo. Ed è una prospettiva attorno alla quale lavora, non senza oggettive difficoltà, l’AICCRE, l’Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa. Da alcune settimane l’AICCRE ha avviato l’iniziativa Covid-19: the best practices of Italian Municipalities2, una raccolta di buone pratiche in materia di lotta all’epidemia da patrimonializzare, condividere e scambiare con Comuni di altri stati europei. Un’iniziativa realizzata nelle attuali impervie condizioni e con i limiti che esse impongono, ma che ha l’ambizione di voler trasformarsi in un punto saldo e solido di una rinnovata cooperazione tra Enti locali fondata sullo “scambio”.
In pratica, una cooperazione, nelle ambizioni, come nelle intenzioni, che dovrebbe attrarre soggetti più specificamente sanitari, in primis le strutture ospedaliere dei diversi territori. Un’iniziativa che può contribuire a rinnovare la cooperazione secondo un paradigma forse non nuovo, ma certamente trascurato negli ultimi anni: quello di partire dalle realtà istituzionali più prossime alle persone, in maniera “decentrata”, ponendo al centro delle azioni la tutela della salute con tutte le interconnessioni che essa necessariamente comporta.
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Termini come “aiuto” o “sviluppo” hanno, infatti, assunto una forma “circolare” in cui la direzione non è più scontata. La linea orizzontale tracciata da Brandt quarant’anni or sono, tende sempre di più a variare, in alcuni casi addirittura a capovolgersi. Lo stiamo tragicamente constatando nella pandemia in corso, dove molti Paesi europei (larga parte del “nord” di cui parlava appunto Brandt) sono diventati oggetto, e non più soggetto, di aiuto e cooperazione. Del resto, carenza di strumenti e finanziamenti scarsi per la “cooperazione sanitaria” sono tra i fattori che hanno contribuito a rallentare la ricerca in ambito epidemiologico negli anni che hanno preceduto l’epidemia: almeno dal 2015, quando l’allarme per i rischi di una potenziale prossima pandemia era stato lanciato da più autorevoli voci. Oltre alla perdurante visione “verticale” della cooperazione, il pregiudizio di pensarla nelle agende politiche di governi e forze politiche come “accessoria” o “opzionale”, le ha tolto le risorse economiche necessarie a sviluppare quelle azioni preventive che, inevitabilmente, necessitano di “scambio” e “condivisione” (di esperienze, di risorse, di bisogni, di risultati). Il prezzo – elevato – che si sta pagando è sotto gli occhi di tutti.
Ne consegue che un investimento massiccio nella “cooperazione sanitaria” è quanto mai urgente. Non occorre attendere la fine della fase emergenziale, giacché “scambio” e “condivisione” di prassi e conoscenze sono iniziative indispensabili proprio per far fronte all’emergenza. I limiti imposti alla mobilità delle persone non debbono servire da pretesto per proseguire nell’immobilismo: lo sviluppo tecnologico nelle comunicazioni si sta rivelando uno strumento essenziale che permette comunicazioni e valutazioni a distanza senza bisogno di muoversi e, in questo caso, senza provocare la diffusione del virus. Se è vero che non esaurisce un progetto di cooperazione, certamente può prepararne le basi e accompagnarne lo sviluppo. Parallelamente, per riavviare la “cooperazione” nelle opportune dimensioni e con l’obiettivo della salute non occorre aspettare un placet dall’alto, ossia dai poteri centrali degli Stati, ma è possibile cominciare da una dimensione di prossimità, per esempio dai Comuni.
Un’utopia? Non direi. I Comuni rappresentano le amministrazioni a più diretto contatto con i bisogni delle comunità. Nell’emergenza Covid-19 in corso, le amministrazioni comunali hanno vissuto la tragica situazione di dovere rispondere alla diffusione del contagio con “misure di contenimento sociale” che si sono tradotte, quasi sempre, in limitazioni e divieti alla mobilità dei propri cittadini. Se questo costituisce forse l’aspetto più appariscente – e più difficile – del ruolo svolto dai sindaci, meno conosciuti sono i numerosi provvedimenti che hanno adottato per modulare i servizi essenziali alle circostanze. Si tratta di servizi assistenziali, informativi, educativi, di supporto economico, in molti casi destinati alle categorie di persone più a rischio o quelle di fasce più deboli e attivati in sinergia con i soggetti dell’associazionismo solidale. Si tratta, ancora, di un grande lavoro di amministrazione responsabile che, nel suo complesso, ha contenuto il rischio che l’emergenza sanitaria fosse percepita (e affrontata) come una questione di ordine sociale, riconducendola al suo obiettivo primario: la tutela della salute dei cittadini.
Ma se si vuole che i provvedimenti siano utili oltre i confini della propria comunità, diventa fondamentale un’operazione di più ampio respiro, che premi davvero il senso di cooperazione sanitaria: le misure e i servizi attivati dai Comuni italiani in questa fase emergenziale devono diventare elemento di scambio con realtà omologhe di altri paesi, europei e non solo. Ed è una prospettiva attorno alla quale lavora, non senza oggettive difficoltà, l’AICCRE, l’Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni e delle Regioni d’Europa. Da alcune settimane l’AICCRE ha avviato l’iniziativa Covid-19: the best practices of Italian Municipalities2, una raccolta di buone pratiche in materia di lotta all’epidemia da patrimonializzare, condividere e scambiare con Comuni di altri stati europei. Un’iniziativa realizzata nelle attuali impervie condizioni e con i limiti che esse impongono, ma che ha l’ambizione di voler trasformarsi in un punto saldo e solido di una rinnovata cooperazione tra Enti locali fondata sullo “scambio”.
In pratica, una cooperazione, nelle ambizioni, come nelle intenzioni, che dovrebbe attrarre soggetti più specificamente sanitari, in primis le strutture ospedaliere dei diversi territori. Un’iniziativa che può contribuire a rinnovare la cooperazione secondo un paradigma forse non nuovo, ma certamente trascurato negli ultimi anni: quello di partire dalle realtà istituzionali più prossime alle persone, in maniera “decentrata”, ponendo al centro delle azioni la tutela della salute con tutte le interconnessioni che essa necessariamente comporta.
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