Coronavirus: l’assenza dell’Europa
di Davide Rigallo |
| La risposta unitaria, solidale e rapida all’emergenza Covid-19 che ci si aspettava dall’Europa non è arrivata. Il Consiglio europeo di ieri, 26 marzo, ha partorito un documento conclusivo1 che posticipa di due settimane le decisioni sui provvedimenti finanziari necessari per affrontare le conseguenze socioeconomiche della pandemia. Quattordici giorni in cui l’Eurogruppo dovrà elaborare nuove proposte economiche in grado di tener conto del carattere senza precedenti dello shock causato dalla Covid-19 in tutti i Paesi e trovare una difficile sintesi tra le posizioni di alcuni Stati tradizionalmente “rigoristi” in materia di bilancio (Austria, Paesi Bassi, Germania) e le richieste di quelli più colpiti (Italia e Spagna, in particolare).
Sul piatto, gli scogli più ostici riguardano la proposta fatta da otto Stati (Francia, Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia) per l’emissione di strumenti di debito comune (eurobond o simili) e l’applicazione di strumenti di protezione secondo parametri adeguati a una crisi “simmetrica”, ossia diffusa in tutti i paesi UE (il riferimento, sottaciuto nel communiqué, è al MES). Ostacoli apparentemente “tecnici”, che traducono però una condizione ben più grave e di natura politica sunteggiata nelle parole dell’eurodeputato Ppe Esteban González Pons: “Quello che manca non è l’Ue, ma l’europeismo dei leader della Ue”.
Quand’anche il rinvio di due settimane si rivelasse una soluzione positiva (il necessario ossigeno diplomatico per stemperare le tensioni), il dato politico emerso ieri è quello di un Consiglio europeo diviso e dominato da interessi nazionali, per molti aspetti simile a quello che la scorsa legislatura si è trovato a gestire prima la crisi greca (2015), poi quella dei migranti (2016).
Il cauto ottimismo di chi, nei giorni scorsi, additava l’emergenza Covid-19 come l’occasione per azioni di riforma e rilancio unitario dell’Ue, azioni in grado di dare risposte concrete e tangibili ai suoi cittadini, ha trovato ieri una smentita in gran parte prevedibile. Purtroppo, gli eventi eccezionali e le crisi che si sono succedute negli ultimi due decenni hanno sempre fatto emergere forti conflittualità in seno al Consiglio europeo (spesso tradottesi in tensioni con gli altri Organi, come il Parlamento e la Commissione), senza mai portare a una riforma strutturale e istituzionale dell’UE che garantisse una sua maggiore efficacia. Viene difficile pensare che l’emergenza Covid-19 possa fare eccezione, soprattutto quando il paradigma su cui i leader cui si muovono è “nazionale” e non “comunitario”.
Nonostante il Consiglio europeo sia l’organo che maggiormente impedisce l’efficacia dell’azione comunitaria, le famiglie politiche europee stentano a concretizzare riforme che possano ridurne significativamente il potere. Sebbene nelle scorse legislature abbiano prodotto vari modelli di riforma, interessi e campi di forza nazionali hanno impedito la loro attuazione, lasciando inalterato l’assetto confederale dell’UE.
Un possibile cambio di rotta potrebbe arrivare dalla prossima Conferenza sul futuro dell’Europa, sul cui svolgimento l’attuale crisi sanitaria è destinata a incidere.
Come tutte le emergenze precedenti, quella in corso, ancorché “simmetrica”, sta rivelando le “malattie” profonde dell’Ue. Ma le cure, nei fatti, non sono in agenda. L’Unione nata per “porre la persona al centro della sua azione creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia” non è purtroppo la stessa che i 27 Stati chiamati ad affrontare questa crisi hanno nei loro programmi politici.
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Sul piatto, gli scogli più ostici riguardano la proposta fatta da otto Stati (Francia, Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia) per l’emissione di strumenti di debito comune (eurobond o simili) e l’applicazione di strumenti di protezione secondo parametri adeguati a una crisi “simmetrica”, ossia diffusa in tutti i paesi UE (il riferimento, sottaciuto nel communiqué, è al MES). Ostacoli apparentemente “tecnici”, che traducono però una condizione ben più grave e di natura politica sunteggiata nelle parole dell’eurodeputato Ppe Esteban González Pons: “Quello che manca non è l’Ue, ma l’europeismo dei leader della Ue”.
Quand’anche il rinvio di due settimane si rivelasse una soluzione positiva (il necessario ossigeno diplomatico per stemperare le tensioni), il dato politico emerso ieri è quello di un Consiglio europeo diviso e dominato da interessi nazionali, per molti aspetti simile a quello che la scorsa legislatura si è trovato a gestire prima la crisi greca (2015), poi quella dei migranti (2016).
Il cauto ottimismo di chi, nei giorni scorsi, additava l’emergenza Covid-19 come l’occasione per azioni di riforma e rilancio unitario dell’Ue, azioni in grado di dare risposte concrete e tangibili ai suoi cittadini, ha trovato ieri una smentita in gran parte prevedibile. Purtroppo, gli eventi eccezionali e le crisi che si sono succedute negli ultimi due decenni hanno sempre fatto emergere forti conflittualità in seno al Consiglio europeo (spesso tradottesi in tensioni con gli altri Organi, come il Parlamento e la Commissione), senza mai portare a una riforma strutturale e istituzionale dell’UE che garantisse una sua maggiore efficacia. Viene difficile pensare che l’emergenza Covid-19 possa fare eccezione, soprattutto quando il paradigma su cui i leader cui si muovono è “nazionale” e non “comunitario”.
Nonostante il Consiglio europeo sia l’organo che maggiormente impedisce l’efficacia dell’azione comunitaria, le famiglie politiche europee stentano a concretizzare riforme che possano ridurne significativamente il potere. Sebbene nelle scorse legislature abbiano prodotto vari modelli di riforma, interessi e campi di forza nazionali hanno impedito la loro attuazione, lasciando inalterato l’assetto confederale dell’UE.
Un possibile cambio di rotta potrebbe arrivare dalla prossima Conferenza sul futuro dell’Europa, sul cui svolgimento l’attuale crisi sanitaria è destinata a incidere.
Come tutte le emergenze precedenti, quella in corso, ancorché “simmetrica”, sta rivelando le “malattie” profonde dell’Ue. Ma le cure, nei fatti, non sono in agenda. L’Unione nata per “porre la persona al centro della sua azione creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia” non è purtroppo la stessa che i 27 Stati chiamati ad affrontare questa crisi hanno nei loro programmi politici.
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1 https://www.consilium.europa.eu/media/43089/26-vc-euco-statement-it.pdf.
Posted on: 2020/03/27, by : admin
Posted on: 2020/03/27, by : admin