Covid-19, assalto alla democrazia?
di Emanuele Davide Ruffino
e Germana Zollesi |
Il mantenimento delle norme anticontagio finora si sono mosse tra due estremi: la repressione attuata con dalle forze dell’ordine, anche con l’uso delle armi e, agli antipodi, l’azione di persuasione volta a sensibilizzare l’intera popolazione all’assunzione di comportamenti corretti. La sensibilità di noi occidentali ci porta inequivocabilmente a preferire la soluzione che predilige una maturità sociale, all’uso della forza. La rapidità con cui si è diffuso il virus (anche se molti ora asseriscono di aver intuito già a dicembre/gennaio la presenza di polmoniti anomale…, un po’ come quei pescatori che raccontano imprese mirabolanti o da leggenda) non ha permesso di avviare dibattiti sull’argomento, mentre ha posto in evidenza gravi carenze nella catena di comando delle democrazie occidentali.
Lo scoppio della pandemia ha obbligato a schierarsi per una delle due soluzioni estreme e l’inconsistenza di molti dibattiti sulle decisioni da prendere ha indotto a non escluderne alcuna, come già avvenuto in alcuni Paesi dell’Unione europea, violandone però lo spirito (speriamo non la sostanza). La realtà obbligherebbe, invece, a posizionarsi in un punto intermedio, non oggettivamente però facile da individuare, non tanto in termini di acquisizione di consensi (problema politico-partitico), quanto in termini di raggiungimento della massima efficacia nel gestire la situazione (problema politico-strategico). E la gestione del coronavirus, rivista dai libri di storia, ci dirà quanto è stato fatto di utile e quanto messo in essere solo per apparire capaci a gestire il quotidiano o per biechi interessi di parte.
Un falso senso di libertà ed indipendenza ha obbligato così all’adozione di misure draconiane, forse alcune messe in campo anche per combattere quel senso di impotenza che ha pervaso tutte le coscienze, facendoci sentire tutti guerrieri al fronte, non solo adagiati sul divano, ma partecipando nel fare qualche cosa di utile. Di conseguenza, il concetto di benessere collettivo riacquisisce un valore prioritario nello stabilire gli interventi politico-sociali ma, prima ancora, sorge spontanea la domanda su chi può arrogarsi il diritto di limitare la libertà di un singolo per un “bene pubblico”, la cui identificazione appare quanto mai indeterminata, senza una visione condivisa della società. Dalla res pubblica di ateniese memoria, si sta passando a un concetto più allargato, dove il bene pubblico viene declinato in più forme, legittimando più soggetti a prendersene cura. Le attività sociali sono plasmate e sostenute dalla classe politica, che dovrebbe detenere un’egemonia tale da far affermare una visione generale all’interno di un “fìeri” storico che, nella fase attuale, si dibatte tra il salvaguardare almeno parzialmente un “welfare state” di tipo assistenziale (che prevede nella sua gestione una forte presenza dello Stato e un sistema di diritti codificati e garantiti da un apparato fortemente burocratizzato) ed un modello, ispirato al “welfare community”, che presuppone, invece, una partecipazione contemporanea di tutte le forze operanti nel sistema generale, ove ognuno si assume una propria diretta responsabilità e rinuncia a demandare ad altre strutture la risoluzione dei propri problemi.
Il mondo pre-coronavirus si contraddistingueva per la presenza di più “cose pubbliche”, tali da non riuscire più a distinguere le priorità. Nel post, il principale problema diventerà quello di stabilire i bisogni in modo da indirizzare il sistema al loro soddisfacimento, avendo cura di contenere l’erogazione di servizi e prestazioni offerte gratuitamente o a prezzo politico, compatibilmente con le risorse disponibili e le problematiche allocative. E ciò allo scopo non soltanto di mantenere il consenso, ma di evitare il fallimento del sistema democratico. In questo processo decisionale devono intervenire sia valutazioni tecniche fornite dagli esperti (ma se i tecnici sono troppi e si contraddicono, la loro utilità diminuisce significativamente), sia specifiche espressioni della volontà collettiva che, in ultima istanza, dovrà sopportare il peso delle decisioni. Se risulta scontata l’indispensabilità dell’intervento pubblico, sia esso nazionale o europeo, ciò non esclude che, oltre un certo livello, l’utilità marginale dell’intervento tenda a scemare, favorendo comportamenti opportunistici.
Ma fino a che si può imporre una decisione? In questi giorni, l’uso di reparti dell’Esercito per far rispettare un comportamento indiscutibilmente appropriato appare quanto mai opportuno, ma ciò rappresenta una grave sconfitta per la democrazia o forse solo del buon senso. Se pochi gridano al golpe (in Italia, parrebbe semplicemente ridicolo), il problema di come il bene comune possa essere “imposto” rimane aperto, aggravato dal fatto che i decision maker nell’essere molteplici, espressione positiva di una società polivalente, rischiano di portare all’immobilismo. In questo scenario, si fanno largo le soluzioni semplicistiche di un uomo solo al comando. Del resto, un vecchio aforismo ricorda come “la miglior forma di governo sia la monarchia assoluta stemperata ogni tanto dal regicidio”…
L’incapacità di far applicare le norme di prevenzione per contrastare il coronavirus e i tentativi di approfittare della situazione per ottenere contributi a fondo perduto (che esploderanno nelle Fase2), evidenzia quanto siano fragili le nostre società e quanto bisognerà lavorare per far sì che alla prossima emergenza si assuma un comportamento razionale, cui dovremmo tutti allinearci. Potevamo già affrontare il problema il 3 giugno del 2017, quando migliaia di persone si ferirono a Torino in piazza San Carlo, in occasione della finale di Champions League o semplicemente osservando la sporcizia lasciata in ogni angolo di strada per capire quanto poco fosse affidabile il senso civico, inteso quale insieme di comportamenti e atteggiamenti che attengono al rispetto degli altri e delle regole di vita in una comunità. L’aver tollerato tante piccole nefandezze si sconta ora che, per difenderci dal virus, si dovrebbe far soprattutto affidamento e leva sul buon senso collettivo ed individuale. Nella maggioranza degli individui è presente (secondo l’Istat 84 per cento delle persone dice di non buttare la carta per terra e questo lascia ben sperare per il senso civico), ma quanti danni possono ancora provocare alla democrazia chi ha bisogno del mitra puntato contro, per assumere un atteggiamento corretto.
Posted on: 2020/04/19, by : admin
Lo scoppio della pandemia ha obbligato a schierarsi per una delle due soluzioni estreme e l’inconsistenza di molti dibattiti sulle decisioni da prendere ha indotto a non escluderne alcuna, come già avvenuto in alcuni Paesi dell’Unione europea, violandone però lo spirito (speriamo non la sostanza). La realtà obbligherebbe, invece, a posizionarsi in un punto intermedio, non oggettivamente però facile da individuare, non tanto in termini di acquisizione di consensi (problema politico-partitico), quanto in termini di raggiungimento della massima efficacia nel gestire la situazione (problema politico-strategico). E la gestione del coronavirus, rivista dai libri di storia, ci dirà quanto è stato fatto di utile e quanto messo in essere solo per apparire capaci a gestire il quotidiano o per biechi interessi di parte.
Un falso senso di libertà ed indipendenza ha obbligato così all’adozione di misure draconiane, forse alcune messe in campo anche per combattere quel senso di impotenza che ha pervaso tutte le coscienze, facendoci sentire tutti guerrieri al fronte, non solo adagiati sul divano, ma partecipando nel fare qualche cosa di utile. Di conseguenza, il concetto di benessere collettivo riacquisisce un valore prioritario nello stabilire gli interventi politico-sociali ma, prima ancora, sorge spontanea la domanda su chi può arrogarsi il diritto di limitare la libertà di un singolo per un “bene pubblico”, la cui identificazione appare quanto mai indeterminata, senza una visione condivisa della società. Dalla res pubblica di ateniese memoria, si sta passando a un concetto più allargato, dove il bene pubblico viene declinato in più forme, legittimando più soggetti a prendersene cura. Le attività sociali sono plasmate e sostenute dalla classe politica, che dovrebbe detenere un’egemonia tale da far affermare una visione generale all’interno di un “fìeri” storico che, nella fase attuale, si dibatte tra il salvaguardare almeno parzialmente un “welfare state” di tipo assistenziale (che prevede nella sua gestione una forte presenza dello Stato e un sistema di diritti codificati e garantiti da un apparato fortemente burocratizzato) ed un modello, ispirato al “welfare community”, che presuppone, invece, una partecipazione contemporanea di tutte le forze operanti nel sistema generale, ove ognuno si assume una propria diretta responsabilità e rinuncia a demandare ad altre strutture la risoluzione dei propri problemi.
Il mondo pre-coronavirus si contraddistingueva per la presenza di più “cose pubbliche”, tali da non riuscire più a distinguere le priorità. Nel post, il principale problema diventerà quello di stabilire i bisogni in modo da indirizzare il sistema al loro soddisfacimento, avendo cura di contenere l’erogazione di servizi e prestazioni offerte gratuitamente o a prezzo politico, compatibilmente con le risorse disponibili e le problematiche allocative. E ciò allo scopo non soltanto di mantenere il consenso, ma di evitare il fallimento del sistema democratico. In questo processo decisionale devono intervenire sia valutazioni tecniche fornite dagli esperti (ma se i tecnici sono troppi e si contraddicono, la loro utilità diminuisce significativamente), sia specifiche espressioni della volontà collettiva che, in ultima istanza, dovrà sopportare il peso delle decisioni. Se risulta scontata l’indispensabilità dell’intervento pubblico, sia esso nazionale o europeo, ciò non esclude che, oltre un certo livello, l’utilità marginale dell’intervento tenda a scemare, favorendo comportamenti opportunistici.
Ma fino a che si può imporre una decisione? In questi giorni, l’uso di reparti dell’Esercito per far rispettare un comportamento indiscutibilmente appropriato appare quanto mai opportuno, ma ciò rappresenta una grave sconfitta per la democrazia o forse solo del buon senso. Se pochi gridano al golpe (in Italia, parrebbe semplicemente ridicolo), il problema di come il bene comune possa essere “imposto” rimane aperto, aggravato dal fatto che i decision maker nell’essere molteplici, espressione positiva di una società polivalente, rischiano di portare all’immobilismo. In questo scenario, si fanno largo le soluzioni semplicistiche di un uomo solo al comando. Del resto, un vecchio aforismo ricorda come “la miglior forma di governo sia la monarchia assoluta stemperata ogni tanto dal regicidio”…
L’incapacità di far applicare le norme di prevenzione per contrastare il coronavirus e i tentativi di approfittare della situazione per ottenere contributi a fondo perduto (che esploderanno nelle Fase2), evidenzia quanto siano fragili le nostre società e quanto bisognerà lavorare per far sì che alla prossima emergenza si assuma un comportamento razionale, cui dovremmo tutti allinearci. Potevamo già affrontare il problema il 3 giugno del 2017, quando migliaia di persone si ferirono a Torino in piazza San Carlo, in occasione della finale di Champions League o semplicemente osservando la sporcizia lasciata in ogni angolo di strada per capire quanto poco fosse affidabile il senso civico, inteso quale insieme di comportamenti e atteggiamenti che attengono al rispetto degli altri e delle regole di vita in una comunità. L’aver tollerato tante piccole nefandezze si sconta ora che, per difenderci dal virus, si dovrebbe far soprattutto affidamento e leva sul buon senso collettivo ed individuale. Nella maggioranza degli individui è presente (secondo l’Istat 84 per cento delle persone dice di non buttare la carta per terra e questo lascia ben sperare per il senso civico), ma quanti danni possono ancora provocare alla democrazia chi ha bisogno del mitra puntato contro, per assumere un atteggiamento corretto.
Posted on: 2020/04/19, by : admin