Csm al bivio dopo il caso Palamara
di Mauro Nebiolo Vietti |
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Domani alle 10,30 si riunirà il Consiglio superiore della magistratura (Csm) alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del Guardasigilli Marta Cartabia. L’atteso plenum in seduta straordinaria dell’Organo di autogoverno dei magistrati è da giorni sotto la luce dei riflettori. Luce non neutra, perché ha illuminato una serie di polemiche al calor bianco tra i membri togati e i membri laici, che si sono divisi e ricompattati trasversalmente contro la riforma avanzata dal precedente governo, il Conte bis.
Nello specifico, il “parlamentino” delle toghe litiga su quei passaggi della riforma dedicati alle nomine. E non solo. La riforma, insieme ai criteri di nomina, modifica la legge elettorale e le regole per i magistrati che entrano in politica. Non è roba da poco. Non lo è perché il Csm si ritrova da mesi in mezzo al guado, dopo che l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati (ANM) Luca Palamara, ha scoperchiato il vaso di Pandora, prima con i suoi comportamenti, poi con il suo libro scritto a quattro mani con il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, portando alla luce del sole ciò che è sempre stato noto a tutti: l’influenza della politica su una parte della magistratura.
Non sull’intero corpo dei magistrati, sia chiaro. Certamente, su coloro che hanno l’ambizione di ricoprire posti di potere per i quali l’intervento della politica non si traduce in una semplice mano (e già sarebbe discutibile), ma in una manona. Niente di strano, quindi, se chi frequenta l’ambiente forense peschi dal fondo della propria memoria episodi che sorreggano la tesi.
Nel lontano 1992, mi capitò di entrare in un noto ristorante nella Galleria del Romano a Torino, insieme ad uno dei più giovani e promettenti professori ordinari di Diritto del Lavoro con cui avevo collaborazioni professionali. Il docente, valentissimo studioso della materia, era politicamente schierato su posizioni di estrema sinistra ed entrando nel ristorante, fummo accolti da un’ovazione di saluti che proveniva da un tavolo in cui, insieme a più esponenti di un partito della sinistra nato dalla costola del Pci, sedevano anche due magistrati. Ai saluti seguirono i complementi al professore che per effetto transitivo si riversarono anche su di me, l’unico per la verità ad essere imbarazzato.
Dieci giorni dopo, ci furono nomine importanti in seno al Csm, ma in tutta sincerità non ho mai saputo, né ho approfondito l’argomento, se quei commensali arrivassero da un “doppio” a tennis o discutessero di altro. Ma ho comunque una certezza per tempi e modi: quel copione si era ripetuto in tutta Italia. Che cosa si possa pensare di un magistrato che per carriera utilizza l’appoggio di correnti per scavalcare un collega l’ho chiaramente spiegato in un precedente articolo su La Porta di Vetro1. Ma a questo punto, occorre comprendere se la situazione sia rimediabile. Il tentativo di sparigliare le carte avviato da Piercamillo Davigo, che fu uno dei magistrati di punta di “Mani pulite” a Milano, è più che apprezzabile, però è risultato anche il frutto della nascita di una nuova corrente che, se oggi può rappresentare uno stimolo, è facile che domani possa degenerare anch’essa.
L’unica possibilità concreta consiste in un appello di tutti i giovani o meno giovani magistrati che non vogliono le correnti, di chiedere un regime elettorale libero. È sufficiente che uno voglia candidarsi ed ha diritto di entrare in lista. Con altro provvedimento si potrebbero abolire le correnti, vietandone la denominazione e quant’altro utilizzabile per acquisire potere. Il resto, in assenza di una reale riforma che mini alle fondamenta il “sistema Palamara”, avrà un nome che con la parola rinnovamento ha soltanto in comune la lettera iniziale: rassegnazione.
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Nello specifico, il “parlamentino” delle toghe litiga su quei passaggi della riforma dedicati alle nomine. E non solo. La riforma, insieme ai criteri di nomina, modifica la legge elettorale e le regole per i magistrati che entrano in politica. Non è roba da poco. Non lo è perché il Csm si ritrova da mesi in mezzo al guado, dopo che l’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati (ANM) Luca Palamara, ha scoperchiato il vaso di Pandora, prima con i suoi comportamenti, poi con il suo libro scritto a quattro mani con il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti, portando alla luce del sole ciò che è sempre stato noto a tutti: l’influenza della politica su una parte della magistratura.
Non sull’intero corpo dei magistrati, sia chiaro. Certamente, su coloro che hanno l’ambizione di ricoprire posti di potere per i quali l’intervento della politica non si traduce in una semplice mano (e già sarebbe discutibile), ma in una manona. Niente di strano, quindi, se chi frequenta l’ambiente forense peschi dal fondo della propria memoria episodi che sorreggano la tesi.
Nel lontano 1992, mi capitò di entrare in un noto ristorante nella Galleria del Romano a Torino, insieme ad uno dei più giovani e promettenti professori ordinari di Diritto del Lavoro con cui avevo collaborazioni professionali. Il docente, valentissimo studioso della materia, era politicamente schierato su posizioni di estrema sinistra ed entrando nel ristorante, fummo accolti da un’ovazione di saluti che proveniva da un tavolo in cui, insieme a più esponenti di un partito della sinistra nato dalla costola del Pci, sedevano anche due magistrati. Ai saluti seguirono i complementi al professore che per effetto transitivo si riversarono anche su di me, l’unico per la verità ad essere imbarazzato.
Dieci giorni dopo, ci furono nomine importanti in seno al Csm, ma in tutta sincerità non ho mai saputo, né ho approfondito l’argomento, se quei commensali arrivassero da un “doppio” a tennis o discutessero di altro. Ma ho comunque una certezza per tempi e modi: quel copione si era ripetuto in tutta Italia. Che cosa si possa pensare di un magistrato che per carriera utilizza l’appoggio di correnti per scavalcare un collega l’ho chiaramente spiegato in un precedente articolo su La Porta di Vetro1. Ma a questo punto, occorre comprendere se la situazione sia rimediabile. Il tentativo di sparigliare le carte avviato da Piercamillo Davigo, che fu uno dei magistrati di punta di “Mani pulite” a Milano, è più che apprezzabile, però è risultato anche il frutto della nascita di una nuova corrente che, se oggi può rappresentare uno stimolo, è facile che domani possa degenerare anch’essa.
L’unica possibilità concreta consiste in un appello di tutti i giovani o meno giovani magistrati che non vogliono le correnti, di chiedere un regime elettorale libero. È sufficiente che uno voglia candidarsi ed ha diritto di entrare in lista. Con altro provvedimento si potrebbero abolire le correnti, vietandone la denominazione e quant’altro utilizzabile per acquisire potere. Il resto, in assenza di una reale riforma che mini alle fondamenta il “sistema Palamara”, avrà un nome che con la parola rinnovamento ha soltanto in comune la lettera iniziale: rassegnazione.
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1 Si veda: Caso Palamara, solo un caso o vizi antichi? in https://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2020/05/nebiolo.pdf
Posted on: 2021/03/22, by : admin
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