Ultimatum a Washington, storia di un fallimento politico e militare

di Germana Tappero Merlo |

|

È di queste ore l’avvertimento del portavoce dei talebani Suhail Shaheen al presidente americano Biden di non chiedere ulteriore tempo per l’evacuazione delle proprie forze armate dall’Afghanistan. “Potrebbero esserci conseguenze”, ha aggiunto con la sicurezza di chi sa di rappresentare i veri vincitori di quella guerra e che ora controllano, come futuri governanti, praticamente l’intero Paese. I talebani, infatti, lo hanno ripreso agilmente meravigliando, per la velocità di avvicinamento e riconquista di Kabul, gli osservatori e una parte degli analisti. Eppure, il controllo talebano di gran parte dell’Afghanistan era già un dato di fatto da parecchio tempo, sebbene sminuito nei report dell’intelligence sul campo, soprattutto quella statunitense, anche se alcuni centri di analisi confezionavano carte e mappe di province, sempre più numerose, controllate o fedeli ai talebani.

Le responsabilità dell’amministrazione Obama

Il loro facile arrivo a Kabul, quindi, senza trovare una resistenza armata degna di nota, era pressoché inevitabile e, ormai si sa, è stato solo accelerato dal frenetico ritiro statunitense voluto dalla Casa Bianca, da cui la disastrosa evacuazione che stiamo assistendo. Tuttavia, se si parla di responsabilità, senza affatto giustificare le scellerate scelte per incapacità di gestione di Biden e dei suoi collaboratori, con i disastri della logistica dell’evacuazione dei civili e quanto è già noto, bisogna risalire indietro nel tempo, almeno biennio 2013-2014, nel momento in cui la presidenza Obama decise il graduale ritiro dall’Afghanistan. Perché se l’evacuazione di Biden è disastrosa, la decisione presa già da quella amministrazione, le modalità tattico-operative seguenti e la mancata transizione verso un governo autonomo forte, così come tutti i termini del negoziato condotto da Trump con i talebani, avevano già provveduto a fornire tutti gli elementi esplicativi di questo fallimento militare, politico e diplomatico dell’Occidente, di cui si imputa l’esclusiva attribuzione a Biden.

Obama, con quell’annuncio e con i primi tagli alle forze US, si era già reso responsabile, almeno dal 2016, del conseguente indebolimento militare e soprattutto dell’intelligence statunitense e della Nato sul luogo, da cui tutta una serie di risultati nefasti per le decisioni tattiche operative sia militari che, inevitabilmente, politiche. La decisione di Obama di un ritiro, anche se a parole ben giustificato, ha tuttavia fin da subito galvanizzato i talebani verso la decisione di riprendersi il Paese: un allarme lanciato da alcuni analisti, ma inascoltato come solo una politica sorda, perché non pragmatica ma ideologica e demagogica, è capace di fronte a uno scenario molto complesso come quello afghano. È infatti in queste prese di posizione ideologiche, nette, ma improvvide se non si valutano a tutto tondo gli aspetti politici, militari, sociali e di sicurezza interna ad un Paese, che risiedono le risposte al fallimento afghano degli Stati Uniti e dei suoi alleati.

L’elemento disgregativo della corruzione dilagante

I contingenti occidentali rimasti, infatti, limitati come consistenza e privati di fonti informative – la cui sicurezza operativa comunque dipendeva anche dal dispiegamento di forze militari, da quel momento però sempre più esigue – sono stati posti a pressoché esclusivo controllo delle grandi città, lasciando così i talebani a “conquistare i cuori e le menti” degli afghani, ma soprattutto a piegare, anche con la forza, i villaggi e ad ottenere il pieno controllo di governi distrettuali periferici, garantendosi l’accesso a fonti economiche strategiche, ben oltre il sostentamento quotidiano e i già noti lauti guadagni dovuti al narcotraffico. Estorsioni, tangenti e presa di controllo con la forza della piccola ma proficua industria mineraria di rame, ferro e di altre materie strategiche, per un valore (si stima) di vari trilioni di dollari, hanno permesso di esserne ora gli unici operatori, da cui una “potenza contrattuale” non da poco con chi ha interesse e soprattutto necessità ad attingervi.

I loro traffici lungo le strade afghane, su cui i talebani imponevano blocchi “a pagamento” come forma di autofinanziamento, oramai erano privi del controllo militare occidentale, così come di quello dell’esercito e della polizia locale, i quali, come il sistema legale e giudiziario, erano stati corrosi dapprima dalla corruzione e poi piegati anche con la violenza ai favori dei talebani. Corruzione dilagante, controllo militare per l’ordine e la sicurezza da parte dei talebani su tutto il territorio sono solo una parte dei numerosi fattori che hanno permesso il rafforzamento dei talebani, sostenuti poi, come noto, da un miliardario traffico dell’oppio, in continua crescita, tanto da dominare il mercato dell’eroina mondiale. E le speculazioni e le spiegazioni circa il perché non si sia intervenuto drasticamente a distruggere quelle coltivazioni sono ormai note.

Povertà e delusione, leve potenti del reclutamento talebano

Il graduale ridimensionamento delle forze militari US, iniziato appunto con Obama, e la concentrazione di quelle rimaste nelle principali città non sembravano considerare il fatto che queste dipendessero da flussi di merci, cibo e sostentamento proprio da quelle vallate controllate dai talebani. Non da meno ciò che dipendeva dall’import-export come economia locale, come pure la difesa di infrastrutture chiave al di fuori delle città, erano esclusi da condizioni di messa in sicurezza da parte occidentale perché questa era concentrata nei grandi centri, quando tutt’intorno regnava, e regna, un serrato controllo talebano.

Tutto ciò ha finito per corrodere il potere del governo centrale a livello provinciale, distrettuale e anche urbano, soprattutto nell’impedire che gli ingenti finanziamenti esteri erogati in due decenni venissero indirizzati su progetti civili-militari coordinati e, si sperava, proficui per la popolazione locale, vittima invece di un costante aumento dei livelli di povertà, con inevitabile deterioramento delle condizioni di vita. Ne è derivato un aumentato bacino di reclutamento di giovani disoccupati nelle fila dei talebani nelle regioni più periferiche, proprio di un copione già visto e rivisto più volte, dal vicino Oriente all’Africa.

Il governo afghano era inoltre dipendente all’80% dagli aiuti esterni, sprecando quel denaro per una struttura amministrativa esageratamente gonfia e corrotta, e la lotta alla corruzione, a voce in cima alle sue priorità, di fatto svanita nel nulla quasi immediatamente. La ricchezza facilmente ottenuta dall’esterno, a cui attingere a piene mani anche per altri scopi, ha inoltre impedito che il governo centrale si prendesse carico dello sviluppo di un’economia locale efficiente ed autonoma.

Miopia e superficialità di Donald Trump

Se queste sono, a grandissime linee, le responsabilità afghane, ritornando a quelle delle amministrazioni US, oltre ad Obama, c’è anche parecchio nei riguardi di Trump che ora, agilmente come solo un collaudato businessman più che un improvvisato politico è in grado di fare, sta imputando tutta la responsabilità della tragica evacuazione a chi gli ha sottratto la presidenza. Tuttavia, Trump ha scambiato il ritiro con un negoziato: ossia ha definito il taglio totale del personale statunitense da circa 10mila sino a 2500 unità, con il ritorno in patria anche del personale civile, di contractors appaltatori, con la chiusura di basi e di strutture, senza mai definire con i talebani anche solo le linee di un processo di pace efficace.

Da qui, l’ennesima galvanizzazione talebana verso la riconquista facile del Paese, con l’aggiunta dello sconforto di funzionari e ufficiali afghani che, più che non voler combattere – come affermato banalmente da Biden – hanno compreso come dovessero ora vedersela da soli a trattare con i talebani. A nulla servirebbero, d’altronde, i miliardi in attrezzature militari, procurate e ora lasciate dagli americani, troppo sofisticate per una forza armata afghana priva di conoscenza tecnica e addestramento, la cui conduzione e manutenzione da sempre dipendevano dai contractors privati US, ora in partenza.

Trump e Biden, inoltre, negoziavano con i talebani a Doha, mentre questi ultimi continuavano ad avanzare anche combattendo in territorio afghano e senza, quindi, un benché minimo accordo per un cessate il fuoco. Entrambi, inoltre, annunciavano le scadenze per il ritiro US completo, barattandolo con la scarcerazione di prigionieri talebani – che inevitabilmente ritornavano ad ingrossare le fila dei combattenti – dando non solo l’impressione della resa, ma senza una benché minima garanzia di un progetto di governo o struttura politica, economica e sociale per quel Paese, senza quindi vincolarlo ad un progetto di riappacificazione e di governo futuro. In pratica, si sarebbe trattato solo di avviare un minimo di institution building, quello che domina da decenni le analisi, le disposizioni, le raccomandazioni degli organismi internazionali e sovranazionali, dalla UE all’ONU.

La guerra inutile per la democrazia e il rispetto dei diritti umani

A quanto pare questi organismi collegiali, sempre più divisi al loro interno, inadeguati e deboli nella loro rappresentatività, sono stati esclusi e quindi delegittimati dalle amministrazioni US a partecipare e a intervenire con autorevolezza nelle decisioni finali circa la sorte della missione e dell’Afghanistan nel suo complesso, con ciò che ne è conseguito e a cui si cerca di porre riparo, ora, con l’annuncio di vari summit di vertice.

Le falle dell’intera vicenda ventennale afghana stanno inoltre nei diversi mandati operativi delle forze militari. Se quell’intervento armato degli Usa e dei suoi alleati era iniziato all’indomani dell’11 settembre 2001, come guerra al terrorismo si sarebbe concluso di fatto con l’eliminazione di Osama bin Laden già dieci anni fa. Lo si è continuato, trasformandolo in guerra per esportare la democrazia che non è stata affatto assicurata; come nemmeno è stato ottenuto quel rispetto dei diritti umani che, si sa, sono il bersaglio preferito, da neutralizzare, per chi pratica radicalmente la Sharia.

Insomma, per l’Occidente, un mancare totalmente gli obiettivi dei suoi mandati, visto che il terrorismo islamista, anche quello originale qaedista, è vivo e vegeto. Eppure, dal Pentagono ai grandi think tank politici e militari occidentali si parlava di minaccia terroristica sconfitta e, quindi, mandato eseguito. Sta qui, a mio avviso, il senso della disfatta di questi giorni: è stato il non rendersi conto che quella in Afghanistan era, e rimane, una guerra di insorgenza, un’insurrezione talebana quindi e non esclusivamente, come è stata trattata da Obama, Trump e Biden, come una minaccia terroristica talebana.

La sottovalutazione del movimento degli “studenti coranici”

È stata totalmente ignorata la storia dei talebani come movimento politico, talebani che godevano di appoggi esterni (ISI pachistano e, fra gli altri, il Qatar) e che già avevano governato quel Paese, concentrandosi sul supporto dato da essi ad al-Qaeda e al sostegno che, a loro volta, ricevono dalla rete di Haqqani – su cui pende una taglia di milioni di dollari – senza contare però che il loro nemico vero, è rappresentato ora da cellule dello Stato Islamico che ha già dato prova di saper approfittare del caos a Kabul. Che fosse, e da parecchio, un’insorgenza talebana è data dal fatto che nel frattempo erano già riemerse tensioni anche in nome di un separatismo locale, non solo del più noto Panshir di cui si lodano il coraggio e la resistenza del suo popolo guidato da Ahmad Massoud, ma di altri capi regionali o signori della guerra che, ora, paiono voler garantire il sostegno al più determinato e potente Panshir.

L’Occidente, sconquassato dagli eventi e sconvolto dalle immagini che provengono da Kabul, ha semplicemente ma colpevolmente ignorato lo sviluppo del movimento politico talebano, della sua lotta per riprendersi il potere e il suo evolversi in un’ampia insurrezione, da cui il suo impatto politico e ideologico sull’intero Paese, con la capacità quasi certosina di ricostruire un impianto di funzionari locali, provinciali e distrettuali, in grado di porsi come governanti per i talebani a tutti i livelli.

Un grossolano e criminale errore di valutazione, quindi, per alcuni anche voluto e ricercato perché coerente con la banditesca strategia del caos seguita dalle potenze occidentali; oppure si è trattato di imperdonabile leggerezza per l’Occidente. Sta di fatto che, a questa parte di mondo, non gli è stato sufficiente vincere battaglie per garantirsi la vittoria in quella guerra lontana, alla sua periferia, e che si voleva solo ed esclusivamente contro il terrorismo islamista. Il risultato più evidente è che l’intero Occidente è ora ostaggio della forza prevaricatrice che l’auto-riploclamato Emirato dell’Afghanistan può esercitare su tutto quel popolo e oltre, e che al momento infierisce sui disperati in cerca di fuga da Kabul, mentre dall’alto della sua prepotenza, e con l’impazienza di chi si vede vincitore dopo decenni di guerra, impone alla grande potenza militare americana e ai suoi alleati i suoi ultimatum.




Posted on: 2021/08/23, by :