Dal Testamento biologico alle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT)
di Libero Ciuffreda * |
| Già dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso l’Oncologia e la SAMCO hanno cercato, attraverso varie iniziative di formazione e sensibilizzazione, di intervenire nel dibattito che investiva tutto il mondo occidentale sui temi del fine vita e delle cure palliative. Riporto alcune notizie che imponevano una riflessione sul tema. Nella Contea di Pinellas (USA), nel 2005 Terry Schiavo muore a 41 anni, nella clinica di cure palliative dove è ricoverata da diversi anni, dipendendo per l’alimentazione e l’idratazione da flebo e sacche nutrizionali. Nel 1990 la donna, subì un arresto cardiaco, riportando gravi danni cerebrali, con conseguente stato vegetativo persistente, al quale seguirono 15 anni di battaglie legali e politiche. L’allora presidente degli USA George W. Bush dichiarò: “Non l’abbiamo protetta”. Si è spenta in Sicilia, a febbraio del 2004, Maria la donna che aveva negato il consenso all’amputazione del suo piede destro divorato dalla cancrena. Aveva scelto di morire e questa sua decisione è stata rispettata anche dai suoi familiari. Il caso aveva suscitato ogni tipo di reazione, divise tra chi voleva che la donna fosse operata ad ogni costo, magari con la forza, e coloro che, al contrario, chiedevano che la decisione drammaticamente personale di Maria fosse rispettata fino alla sua più estrema conseguenza.
Il dibattito si inasprisce anche in Italia e scuote l’opinione pubblica oltre che i vari schieramenti politici e religiosi con la vicenda umana e familiare di Eluana Englaro, nata il 25 novembre 1970, e nel 1992, appena ventunenne, è vittima di un incidente stradale che le provoca gravi lesioni al cervello, condannandola a uno stato vegetativo permanente. Dopo due anni i medici comunicano ai genitori che la loro figlia quasi certamente non potrà più uscire dallo stato vegetativo. I genitori, atterriti di fronte alla notizia e consapevoli delle volontà espressa dalla figlia di non desiderare inutili accanimenti terapeutici, iniziano un lunghissimo iter giudiziario (sentenze, ricorsi, Corte d’Appello di Milano, Corte Suprema di Cassazione). Il 13 novembre 2008 finalmente vengono interrotti i trattamenti che mantengono le funzioni vitali, muore il 9 febbraio 2009, seguono, contro il padre Beppino Englaro, denunce e accuse di omicidio preterintenzionale, colposo, pluriaggravato, concluse con l’archiviazione il giorno 11 gennaio 2010, quando il GIP del Tribunale di Udine mette fine all’inchiesta per omicidio, a carico del padre di Eluana e di altre 13 persone.
Il dibattito nella società italiana diventa sempre più aspro, con scontri tra cattolici romani tradizionalisti e “laici”; agende parlamentari dettate da poteri esterni alle Aule della Repubblica; indignazione, rabbia, divisione e contrapposizione tra militanti dello stesso schieramento politico e di partito. Anche nelle stesse chiese e confessioni religiose il dibattito scuote le coscienze.
Abbiamo più volte ospitato e ascoltato con interesse e stupore le appassionate testimonianze di Mina Welby, la moglie di Pier Giorgio. Ricordiamo alcuni stralci della lettera che lui stesso inviò, nei giorni prima di Natale del 2006, al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quando gravemente ammalato chiese che venissero interrotte le cure che lo tenevano in vita: “Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude (…). Purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”.(P. Welby).
Il tema della morte è molto impopolare per chiunque lo tratti. Ogni volta che mi trovo ad affrontarlo, come medico, oltre che come uomo, mi rendo conto delle difficoltà, talora laceranti che si scatenano: “rappresenta lo scacco alla medicina, l’unico tabù; il sesso è legale, solo la morte è pornografica”. (J. Boudollard).
È altrettanto vero che è un tema che non si può nascondere o ignorare. Di fronte alla medicina tecnologica – rianimazione, terapie intensive e trapianti – le scelte si fanno sempre più difficili. Scelte che appaiono dedicate a pochi casi estremi, in realtà riguardano il destino di migliaia di persone sane, che improvvisamente si ammalano, come può accadere negli esiti di incidenti stradali o di molte persone malate, affette da patologie oncologiche o croniche–degenerative. Nei Paesi sviluppati economicamente, la situazione socio assistenziale ha portato: progresso biomedico e biotecnologico; migliorate condizioni igienico sanitarie; invecchiamento della popolazione; cronicizzazione delle malattie.
In quasi tutte le persone alla fine della vita si pongono interrogativi: sospendere o meno i trattamenti? Che cosa avrebbe voluto quella persona se avesse potuto scegliere? È lecito interrompere la vita sia pure per porre fine a sofferenze intollerabili? Interrogativi etici quotidiani che abbiamo cercato di affrontare, sapendo che ogni volta si avverte un certo timore e tremore, poiché consapevoli della loro delicatezza. Ma non potevamo come oncologi e Associazione sottrarci ad inserirci pienamente nel dibattito in corso per stimolare e far crescere la consapevolezza che si trattava di una battaglia civile e di libertà.
Aiutati da psicologi, teologi, filosofi, bioeticisti ed altri specialisti del campo medico, da singoli cittadini, abbiamo contribuito a far nascere in Piemonte le Cure Palliative Domiciliari e in Hospice, oltre che favorire la promulgazione di leggi sulle cure palliative. L’Italia pur tra mille difficoltà e ritardi oggi può contare su due leggi fondamentali: la Legge n. 38 del 15 marzo 2010 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” e la più recente Legge n. 219 del 22 dicembre 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (D.A.T.)”.
La prospettiva delle “early palliative care” ha moltiplicato i malati con bisogni di cure palliative a domicilio e in hospice, oltre ad enfatizzare il ruolo delle cure primarie. Farsi carico del malato complesso in trattamento palliativo, significa mettere in atto un lavoro di équipe, una struttura organizzativa efficiente, che assicuri la continuità delle cure, un approccio interdisciplinare e non mere terapie di supporto in un contesto più o meno compassionevole, ma terapie in grado di migliorare la qualità di vita dei malati e dei famigliari, facendo risparmiare risorse e, in alcuni casi, aumentare addirittura la sopravvivenza. Sarà fondamentale applicare la L.219/2017, in particolare per rafforzare la relazione di cura e di fiducia tra pazienti, familiari ed équipe.
Una legge che facilita e norma, nel proporre le soluzioni di cura, l’incontro tra l’autonomia decisionale del malato e l’autonomia professionale dell’équipe sanitaria, affinché a tutti i pazienti che hanno diritto alle Cure Palliative e ai cittadini gli strumenti per interpretare i diversi atti del prendersi cura e della DAT. Le persone, malate e non, rivendicano sempre più spesso l’esigenza di affermare la supremazia del concetto di qualità e dignità della vita e di riappropriarsi delle scelte che riguardano la propria esistenza, anche nella fase finale o quando non si è più in grado di dare un consenso personale. La maggior parte dei malati e una percentuale sempre più alta di popolazione sana è favorevole al principio dell’autodeterminazione ed è contrario all’accanimento terapeutico (distanasia). Già nel 2001 il nostro Paese aveva ratificato con la Legge 145 la Convenzione Europea di Oviedo del 1997, sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina, che stabilisce all’art.9: “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la propria volontà saranno tenuti in considerazione”.
Sentiamo l’urgenza di una “metanoia culturale”, capace di recuperare la consapevolezza che la morte è una dimensione costitutiva della vita, un dato che appartiene allo statuto ontologico dell’umano nella sua storicità. Tutto ciò pur in un contesto ove la scienza medica permette di registrare continui e inarrestabili passi avanti nella diagnosi e nelle terapie, oltre che nei progressi a livello organizzativo come le reti oncologiche.
*Direttore S.C. Oncologia Medica 1 – A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino. Presidente dell’Associazione Sostegno Assistenza Malato Cronico Oncologico (SAMCO) Onlus, Chivasso (To).
Posted on: 2019/11/30, by : admin
Il dibattito si inasprisce anche in Italia e scuote l’opinione pubblica oltre che i vari schieramenti politici e religiosi con la vicenda umana e familiare di Eluana Englaro, nata il 25 novembre 1970, e nel 1992, appena ventunenne, è vittima di un incidente stradale che le provoca gravi lesioni al cervello, condannandola a uno stato vegetativo permanente. Dopo due anni i medici comunicano ai genitori che la loro figlia quasi certamente non potrà più uscire dallo stato vegetativo. I genitori, atterriti di fronte alla notizia e consapevoli delle volontà espressa dalla figlia di non desiderare inutili accanimenti terapeutici, iniziano un lunghissimo iter giudiziario (sentenze, ricorsi, Corte d’Appello di Milano, Corte Suprema di Cassazione). Il 13 novembre 2008 finalmente vengono interrotti i trattamenti che mantengono le funzioni vitali, muore il 9 febbraio 2009, seguono, contro il padre Beppino Englaro, denunce e accuse di omicidio preterintenzionale, colposo, pluriaggravato, concluse con l’archiviazione il giorno 11 gennaio 2010, quando il GIP del Tribunale di Udine mette fine all’inchiesta per omicidio, a carico del padre di Eluana e di altre 13 persone.
Il dibattito nella società italiana diventa sempre più aspro, con scontri tra cattolici romani tradizionalisti e “laici”; agende parlamentari dettate da poteri esterni alle Aule della Repubblica; indignazione, rabbia, divisione e contrapposizione tra militanti dello stesso schieramento politico e di partito. Anche nelle stesse chiese e confessioni religiose il dibattito scuote le coscienze.
Abbiamo più volte ospitato e ascoltato con interesse e stupore le appassionate testimonianze di Mina Welby, la moglie di Pier Giorgio. Ricordiamo alcuni stralci della lettera che lui stesso inviò, nei giorni prima di Natale del 2006, al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, quando gravemente ammalato chiese che venissero interrotte le cure che lo tenevano in vita: “Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude (…). Purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche”.(P. Welby).
Il tema della morte è molto impopolare per chiunque lo tratti. Ogni volta che mi trovo ad affrontarlo, come medico, oltre che come uomo, mi rendo conto delle difficoltà, talora laceranti che si scatenano: “rappresenta lo scacco alla medicina, l’unico tabù; il sesso è legale, solo la morte è pornografica”. (J. Boudollard).
È altrettanto vero che è un tema che non si può nascondere o ignorare. Di fronte alla medicina tecnologica – rianimazione, terapie intensive e trapianti – le scelte si fanno sempre più difficili. Scelte che appaiono dedicate a pochi casi estremi, in realtà riguardano il destino di migliaia di persone sane, che improvvisamente si ammalano, come può accadere negli esiti di incidenti stradali o di molte persone malate, affette da patologie oncologiche o croniche–degenerative. Nei Paesi sviluppati economicamente, la situazione socio assistenziale ha portato: progresso biomedico e biotecnologico; migliorate condizioni igienico sanitarie; invecchiamento della popolazione; cronicizzazione delle malattie.
In quasi tutte le persone alla fine della vita si pongono interrogativi: sospendere o meno i trattamenti? Che cosa avrebbe voluto quella persona se avesse potuto scegliere? È lecito interrompere la vita sia pure per porre fine a sofferenze intollerabili? Interrogativi etici quotidiani che abbiamo cercato di affrontare, sapendo che ogni volta si avverte un certo timore e tremore, poiché consapevoli della loro delicatezza. Ma non potevamo come oncologi e Associazione sottrarci ad inserirci pienamente nel dibattito in corso per stimolare e far crescere la consapevolezza che si trattava di una battaglia civile e di libertà.
Aiutati da psicologi, teologi, filosofi, bioeticisti ed altri specialisti del campo medico, da singoli cittadini, abbiamo contribuito a far nascere in Piemonte le Cure Palliative Domiciliari e in Hospice, oltre che favorire la promulgazione di leggi sulle cure palliative. L’Italia pur tra mille difficoltà e ritardi oggi può contare su due leggi fondamentali: la Legge n. 38 del 15 marzo 2010 “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore” e la più recente Legge n. 219 del 22 dicembre 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (D.A.T.)”.
La prospettiva delle “early palliative care” ha moltiplicato i malati con bisogni di cure palliative a domicilio e in hospice, oltre ad enfatizzare il ruolo delle cure primarie. Farsi carico del malato complesso in trattamento palliativo, significa mettere in atto un lavoro di équipe, una struttura organizzativa efficiente, che assicuri la continuità delle cure, un approccio interdisciplinare e non mere terapie di supporto in un contesto più o meno compassionevole, ma terapie in grado di migliorare la qualità di vita dei malati e dei famigliari, facendo risparmiare risorse e, in alcuni casi, aumentare addirittura la sopravvivenza. Sarà fondamentale applicare la L.219/2017, in particolare per rafforzare la relazione di cura e di fiducia tra pazienti, familiari ed équipe.
Una legge che facilita e norma, nel proporre le soluzioni di cura, l’incontro tra l’autonomia decisionale del malato e l’autonomia professionale dell’équipe sanitaria, affinché a tutti i pazienti che hanno diritto alle Cure Palliative e ai cittadini gli strumenti per interpretare i diversi atti del prendersi cura e della DAT. Le persone, malate e non, rivendicano sempre più spesso l’esigenza di affermare la supremazia del concetto di qualità e dignità della vita e di riappropriarsi delle scelte che riguardano la propria esistenza, anche nella fase finale o quando non si è più in grado di dare un consenso personale. La maggior parte dei malati e una percentuale sempre più alta di popolazione sana è favorevole al principio dell’autodeterminazione ed è contrario all’accanimento terapeutico (distanasia). Già nel 2001 il nostro Paese aveva ratificato con la Legge 145 la Convenzione Europea di Oviedo del 1997, sui Diritti dell’Uomo e la biomedicina, che stabilisce all’art.9: “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la propria volontà saranno tenuti in considerazione”.
Sentiamo l’urgenza di una “metanoia culturale”, capace di recuperare la consapevolezza che la morte è una dimensione costitutiva della vita, un dato che appartiene allo statuto ontologico dell’umano nella sua storicità. Tutto ciò pur in un contesto ove la scienza medica permette di registrare continui e inarrestabili passi avanti nella diagnosi e nelle terapie, oltre che nei progressi a livello organizzativo come le reti oncologiche.
*Direttore S.C. Oncologia Medica 1 – A.O.U. Città della Salute e della Scienza di Torino. Presidente dell’Associazione Sostegno Assistenza Malato Cronico Oncologico (SAMCO) Onlus, Chivasso (To).
Posted on: 2019/11/30, by : admin