Dalla capanna degli adulti a quella dei ragazzi…

di Stefano Cavalitto|

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Ci colpisce che il coordinatore del Comitato tecnico scientifico creato fin dallo scorso febbraio per monitorare e dare indicazioni sulla pandemia, ancora purtroppo in corso, in una recente intervista ripresa da diverse testate nazionali e non, si sia espresso in maniera piuttosto esplicita circa il rientro in classe di migliaia di allievi di vario ordine e grado. Agostino Miozzo, coordinatore del Cts appunto, sostiene una certa urgenza nel cercare e trovare strade che permettano alla scuola di ritornare in presenza, lasciando alle spalle, oppure relegato a casi estremi, l’uso della didattica a distanza. Sostiene tutto ciò illustrando il rischio ben espresso dall’immagine contenuta nella cosiddetta “sindrome della capanna”, peraltro già citata negli articoli del 9 e 18 maggio scorsi su La Porta di Vetro1. In altri termini, la fossilizzazione di abitudini legate al luogo “sicuro” rappresentato dalla capanna-casa sentito da un lato una protezione (ed anche in qualche modo una comodità), disabituandosi alla vita estrovertita dell’incontro in presenza con l’altro e capanna-prigione dall’altro come il luogo della reclusione, della clausura.

La “subdola” comodità di stare chiusi nella capanna per i ragazzi può avere molte facce: dal banale non doversi spostare per le lezioni, ad avere o ritenere di avere sotto controllo maggiori informazioni o nozioni per i compiti valutati ed in alcuni casi anche il supporto/aiuto genitoriale per lo svolgimento di tali compiti… Tale presunta comodità è stata tuttavia ben presto screditata da molti giovani che fin da subito si sono schierati per le lezioni in presenza, dimostrando un’affezione per le relazioni, nelle nuove generazioni, confortante se paragonato ad alcune resistenze del mondo adulto a tornare a lavorare vis à vis con i propri colleghi. E così, una di loro, pionieristicamente, proprio qui a Torino, luogo in cui scrivo, ha iniziato a ridurre la distanza dalla scuola stabilendosi, prima seduta sugli scalini, poi organizzandosi con un banchetto, di fronte alla propria scuola e da lì ha iniziato a seguire con il suo tablet le lezioni on-line. Complice un autunno, sebbene inoltrato, non particolarmente rigido. A poco a poco, come lei, anche altre studentesse e studenti si sono trovati fuori dall’ingresso della scuola per seguire le lezioni on line, sebbene in strada, in compagnia (distanziata) dei propri compagni di classe. Tutto ciò ha provocato la reazione dei dirigenti scolastici che hanno dovuto prendere posizione rispetto alla scelta originale degli studenti. Insomma, con una facile ironia, potremmo dire dalla capanna al capannello. Davanti a scuola.

Cosa ci racconta tutto ciò? Molto. Proviamo a vedere qualcosa di questo molto. Innanzi tutto il bisogno/desiderio di condivisione e comunità che il gesto degli studenti comunica. Tale gesto ci impone una riflessione profonda sull’inflazione informatica a cui l’emergenza sanitaria ci ha costretto. In secondo luogo ci spinge ad un altrettanto profonda riflessione sul ruolo delle istituzioni formative nel processo vitale di una nazione, di una comunità. Uso appositamente il termine “formative” e non ad esempio educative, per sottolineare il darsi e prendere forma dell’individuo nella sua crescita e nel suo percorso evolutivo che tali istituzioni dovrebbero favorire. La questione è stata oggetto di considerazioni anche da parte del giurista Gustavo Zagrebelsky che intervenendo sulla carta stampata nazionale nel dibattito si è posto in qualche modo da arbitro imparziale tra le necessità di mantenere fermi i limiti delle norme in attuazione e allo stesso tempo mantenere fede ai bisogni formativi dei nostri ragazzi. In questi termini la questione si pone quasi come un dilemma. Non ho certo io soluzioni da proporre, se non quella di una migliore organizzazione delle istituzioni in generale, frase che però in questo contesto rischia di essere quasi qualunquista se non debitamente approfondita e quindi lasciare un po’ il tempo che trova…

La questione a monte tuttavia, ormai evidente ai più, è l’importanza fattuale (anche economica) che viene data alle istituzioni formative. Quando diciamo che la scuola ed i giovani sono il futuro, ci crediamo veramente? Cioè intraprendiamo, come comunità e poi come nazione, azioni che interpretino tale pensiero e sentire condiviso? Ad ognuno, in cuor proprio, la risposta. I capannelli degli studenti fuori dagli istituti scolastici sono diventati negli ultimi giorni anche manifestazioni in piazza per sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema. Vale la pena segnalare a questo punto un testo di recente pubblicazione: “Nello specchio della scuola” di Patrizio Bianchi, che porta in copertina come sottotitolo “Sul sistema educativo si riflette l’immagine del paese ed è nella formazione che si gioca il nostro sviluppo futuro”. Al di là del contenuto nel quale non mi addentro, in queste poche parole è condensata l’importanza della questione. Peraltro lo stesso Bianchi ha fatto parte delle commissione del Miur fin dalla passata primavera per il ritorno delle lezioni in presenza a scuola. Da un punto di vista prospettico, la parola che mi colpisce di più tra quelle citate dal testo in questione è futuro.

È luogo comune dire che i giovani sono il futuro, che le nuove generazioni sono il seme dello sviluppo ed è anche luogo comune sapere che tali nuove generazioni si concentrino soprattutto attorno ai banchi scolastici di ogni ordine e grado. C’è inoltre un’altra parola che è intimamente connessa, psicologicamente connessa con futuro: è la parola speranza. Speranza e futuro sono un binomio, due facce della stessa medaglia. Coltivare il seme del futuro, cioè far si che tale seme abbia un luogo effettivo-affettivo e adeguato in cui crescere dona speranza anche al tempo presente. Per dirla con il filosofo Salvatore Natoli “tenere accesa la speranza” significa non tanto illudersi con voli pindarici e fughe in avanti piene di fantasticherie illusorie, ma coltivare il presente attraverso un impegno che ci dia una prospettiva. Coltivare il presente, dunque, nei limiti del possibile ed anche magari con fasi ondivaghe, non sempre così lineari, ma legate dal filo della perseveranza. Scuola, intesa come luogo della formazione, nuove generazioni, futuro, speranza e perseveranza definiscono un continuum di significato su cui vale la pena di riflettere. Ed intervenire.



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