“Decreti Sicurezza”: cambiare rotta
di Davide Rigallo |
|A scanso di equivoci, una premessa. L’abrogazione dei cosiddetti “Decreti Sicurezza” è un atto necessario innanzitutto – e soprattutto – per impedire che essi continuino a produrre i loro effetti giuridici a danno di richiedenti asilo, sistema accoglienza e soggetti impegnati nei soccorsi in mare.
Ciò detto, questa abrogazione, se mai avverrà, non cambierà di una virgola l’impianto della politica migratoria nazionale e, soprattutto, europea – di cui, quella italiana è, da vent’anni a questa parte, un semplice effetto. Come ricordato su questa rivista alcuni mesi fa, sulla materia migratoria in Italia vige da 18 anni la Legge 189/2002, meglio nota come Bossi-Fini, praticamente inscalfibile al succedersi di governi di diverso colore e seconda, per longevità, soltanto al Regio Decreto 773 del 1931. Inoltre, sempre in Italia, continua a mancare una legge specifica sull’asilo corrispettiva dell’art. 10 della Costituzione, lasciando così che la legislazione sulla protezione internazionale segua, quasi meccanicamente, quella sull’immigrazione.
Ciò che però appare più inamovibile nella politica migratoria nazionale è la visione che associa, spesso in modo surrettizio, sicurezza e migrazioni, individuando nelle seconde un fattore di instabilità che va frenato, dissuaso, in qualche modo tolto dall’orizzonte. Non importa se e quanto ciò sia realisticamente praticabile: l’argine ai flussi migratori costituisce un obiettivo che, segretamente o esplicitamente, in maniera rabbiosa o viceversa “buonista”, permea trasversalmente il dibattito politico sulle migrazioni, senza troppe possibilità di dubbio. Il successo di una politica migratoria è dato essenzialmente dal calo del numero di arrivi che riesce a indurre: le recenti comparazioni tra “gestione Lamorgese” e “gestione Salvini”, come quelli antecedenti tra “gestione Salvini” e “gestione Minniti”, ricalcano in pieno questa logica, con tanto di corollari statistici al seguito. Fuoriescono, invece, totalmente dal dibattito considerazioni circa le modalità di accoglienza, il grado e le forme di integrazione dei migranti, l’utilità di strumenti come la mediazione culturale, ecc. Argomento forse troppo complesso per una politica appiattita su slogan di facile presa sull’opinione pubblica, quello migratorio sembra non ammettere più richiami ai diritti fondamentali, a visioni strutturali di lungo periodo, a soluzioni che non siano emergenziali e drastiche. Tutto questo mentre il paesaggio sociale, piaccia o no, ha assunto da tempo configurazione e dinamiche fortemente multiculturali.
Semplificazioni e forte attenzione per il “consenso” non spiegano però completamente la difficoltà a cambiare paradigma in materia di migrazioni. C’è dell’altro, infatti, e ben più determinante. Abbiamo accennato sopra a come la politica migratoria italiana sia, da vent’anni, una semplice propaggine di quella europea. Ho avuto modo di documentare, su questa rivista, scelte, responsabilità e indirizzi che, nel corso di vent’anni, hanno strettamente connesso la politica migratoria europea alla gestione delle frontiere esterne dell’Ue, al punto da rafforzarne esponenzialmente gli strumenti di controllo (in larga misura, militari). L’idea che i flussi (non solo quelli “illegali”) dai paesi terzi debbano essere contenuti o, addirittura, impediti si è tradotta da tempo nella strategia di rendere quasi impermeabile la frontiera esterna dell’Ue: strategia che, in seno al Consiglio europeo, gode della pressoché unanimità dei governi, ben disposti a declinarla nelle loro scelte nazionali. Al di là dei suoi eccessi e delle sue conseguenze, i “Decreti Sicurezza” del 2019 rispondono in pieno a questo disegno complessivo. Esattamente come, in forme diverse, vi avevano risposto nel 2017 il “Decreto Minniti” e il Memorandum Italia-Libia (appena prorogato). Perché è sui tavoli del Consiglio e della Commissione europea che si gioca la vera partita sulla politica migratoria. Ed è lì che, ad oggi, mancano forza e volontà per imporre un paradigma diverso su questa materia.
Posted on: 2020/02/22, by : admin
Ciò detto, questa abrogazione, se mai avverrà, non cambierà di una virgola l’impianto della politica migratoria nazionale e, soprattutto, europea – di cui, quella italiana è, da vent’anni a questa parte, un semplice effetto. Come ricordato su questa rivista alcuni mesi fa, sulla materia migratoria in Italia vige da 18 anni la Legge 189/2002, meglio nota come Bossi-Fini, praticamente inscalfibile al succedersi di governi di diverso colore e seconda, per longevità, soltanto al Regio Decreto 773 del 1931. Inoltre, sempre in Italia, continua a mancare una legge specifica sull’asilo corrispettiva dell’art. 10 della Costituzione, lasciando così che la legislazione sulla protezione internazionale segua, quasi meccanicamente, quella sull’immigrazione.
Ciò che però appare più inamovibile nella politica migratoria nazionale è la visione che associa, spesso in modo surrettizio, sicurezza e migrazioni, individuando nelle seconde un fattore di instabilità che va frenato, dissuaso, in qualche modo tolto dall’orizzonte. Non importa se e quanto ciò sia realisticamente praticabile: l’argine ai flussi migratori costituisce un obiettivo che, segretamente o esplicitamente, in maniera rabbiosa o viceversa “buonista”, permea trasversalmente il dibattito politico sulle migrazioni, senza troppe possibilità di dubbio. Il successo di una politica migratoria è dato essenzialmente dal calo del numero di arrivi che riesce a indurre: le recenti comparazioni tra “gestione Lamorgese” e “gestione Salvini”, come quelli antecedenti tra “gestione Salvini” e “gestione Minniti”, ricalcano in pieno questa logica, con tanto di corollari statistici al seguito. Fuoriescono, invece, totalmente dal dibattito considerazioni circa le modalità di accoglienza, il grado e le forme di integrazione dei migranti, l’utilità di strumenti come la mediazione culturale, ecc. Argomento forse troppo complesso per una politica appiattita su slogan di facile presa sull’opinione pubblica, quello migratorio sembra non ammettere più richiami ai diritti fondamentali, a visioni strutturali di lungo periodo, a soluzioni che non siano emergenziali e drastiche. Tutto questo mentre il paesaggio sociale, piaccia o no, ha assunto da tempo configurazione e dinamiche fortemente multiculturali.
Semplificazioni e forte attenzione per il “consenso” non spiegano però completamente la difficoltà a cambiare paradigma in materia di migrazioni. C’è dell’altro, infatti, e ben più determinante. Abbiamo accennato sopra a come la politica migratoria italiana sia, da vent’anni, una semplice propaggine di quella europea. Ho avuto modo di documentare, su questa rivista, scelte, responsabilità e indirizzi che, nel corso di vent’anni, hanno strettamente connesso la politica migratoria europea alla gestione delle frontiere esterne dell’Ue, al punto da rafforzarne esponenzialmente gli strumenti di controllo (in larga misura, militari). L’idea che i flussi (non solo quelli “illegali”) dai paesi terzi debbano essere contenuti o, addirittura, impediti si è tradotta da tempo nella strategia di rendere quasi impermeabile la frontiera esterna dell’Ue: strategia che, in seno al Consiglio europeo, gode della pressoché unanimità dei governi, ben disposti a declinarla nelle loro scelte nazionali. Al di là dei suoi eccessi e delle sue conseguenze, i “Decreti Sicurezza” del 2019 rispondono in pieno a questo disegno complessivo. Esattamente come, in forme diverse, vi avevano risposto nel 2017 il “Decreto Minniti” e il Memorandum Italia-Libia (appena prorogato). Perché è sui tavoli del Consiglio e della Commissione europea che si gioca la vera partita sulla politica migratoria. Ed è lì che, ad oggi, mancano forza e volontà per imporre un paradigma diverso su questa materia.
Posted on: 2020/02/22, by : admin