Di corsa verso le “nuove” radiose giornate di maggio?
di Michele Ruggiero |
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Era il maggio del 1915, quando gli interventisti, i fautori dell’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra, presero il sopravvento. I pacifisti, cattolici e socialisti, per quanto combattivi nelle piazze, furono messi fuorigioco. Benito Mussolini, il transfuga, ex direttore dell’Avanti socialista, con i soldi dei francesi aveva fondato il Popolo d’Italia, schierato sulla linea dell’intervento, schiacciato sull’enfasi (non gratuita) della Quarta guerra risorgimentale per la conquista di Trento e di Trieste.
Fu così che le grida “viva la guerra” consegnarono alla Storia le “radiose giornate di maggio”. Il 24 maggio, senza che vi fosse nessuna discussione in Parlamento, che di fatto venne messo in quarantena fino al 4 novembre del 1918, giorno della Vittoria, l’Italia di sua Maestà Vittorio Emanuele III dichiarò guerra all’Impero Austro-Ungarico e alla Germania del Kaiser Guglielmo, con i quali eravamo alleati soltanto dodici mesi prima. Il Paese passava da un’alleanza all’altra come in un giro di valzer, ma avrebbe almeno finito la guerra dalla stessa parte.
Il Parlamento, infatti, subì il famoso “Trattato di Londra”, accordo segreto (divulgato soltanto a cavallo tra il 1917 e il 1918 nell’imbarazzo generale…) che il governo italiano aveva firmato il 26 aprile 1915 con le potenze della Triplice Intesa per scendere in guerra contro gli Imperi Centrali entro un mese. Un’intesa che l’Italia rispettò con due giorni di anticipo, dando prova di una volontà che scopriva e rispecchiava gli interessi di coloro che erano coinvolti nelle forniture di guerra e della Corona che ardeva dal desiderio di ritagliarsi un posto nella storia per compensare altri e noti deficit.
Al Parlamento il bavaglio venne poi generosamente tolto, ma per breve tempo: con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, avallata da monarchia, vertici dell’esercito e industriali, Mussolini s’incaricò di mettere la camicia di contenzione alla democrazia liberale, per poi soffocarla definitivamente con le elezioni del 6 aprile 1924 e con l’uccisione – un assassinio di regime – del deputato socialista Giacomo Matteotti, il 10 giugno dello stesso anno.
Ma con Mussolini e il fascismo, in effetti, ci siamo spinti oltre l’intenzione di affrontare nel merito l’ultima dichiarazione parlamentare Enrico Borghi, membro della segreteria nazionale del Pd, il quale ha sostenuto che “non è necessario che ci sia un nuovo passaggio parlamentare perché “la risoluzione approvata dal Parlamento lo scorso 1° marzo autorizza il governo a operare in tal senso fino al 31 dicembre prossimo, chiarendo che è consentita la cessione di apparati e strumenti militari che consentano all’Ucraina di esercitare il diritto alla legittima difesa e di proteggere la popolazione”.
In altri termini, secondo Borghi, la risoluzione è l’ombrello sotto cui il governo si ripara (o può ripararsi) dinanzi a qualunque evoluzione del conflitto. Evoluzione che dal 1° marzo nella sostanza è avvenuta. E ne fanno fede le dichiarazioni sia di Putin, che minaccia l’uso di armi che nessun altro paese possiede, sia dell’amministrazione Biden che con il segretario di Stato Usa Antony Blinken e il segretario della Difesa Llyod Austin affermano che la guerra in Ucraina mira a indebolire la Russia e dissuaderla dal compiere nuove aggressioni ai danni di altri paesi. Una posizione che è stata raccolta e condivisa dal ministro della difesa britannico Ben Wallace.
Quindi ancora armi per la difesa di Kiev, evitando lo stucchevole distinguo da leguleio tra “armi difensive” e “armi offensive”, entrano nella prospettiva di una nuova strategia militare. A questo punto, però, il cittadino avrebbe diritto di sapere se l’Italia rientra nella nuova strategia, se non altro per essere membro dell’Alleanza Atlantica e ne condivide l’obiettivo o se, all’opposto, continua a inviare armi all’Ucraina a titolo “personale”, nel rispetto della sua sovranità per una giusta causa.
Ora si comprenderà che l’interrogativo è tutt’altro che capzioso, e quanto si profili la necessità di scomodare gli articoli 11 e 78 della Costituzione1 se l’affermazione dell’onorevole Enrico Borghi dovesse ricadere sulla prima opzione e sulla risoluta determinazione dell’Occidente di piegare lo Czar Putin e la Federazione Russa, anche a rischio di una catastrofe nucleare che da 6 agosto del 1945, dalla bomba su Hiroshima, l’umanità è costretta a contemplare.
Naturalmente, pur continuando a insistere per la ricerca della pace e l’intervento delle Nazioni Unite, ad un tempo continuiamo a credere nella lealtà del nostro governo e degli alleati. Tuttavia sarebbe come minimo sgradevole, scoprire un giorno che tale lealtà era riposta, esattamente come nell’aprile del 1915, su patti segreti firmati alle nostre spalle. E, soprattutto, prefigurarsi il dopo…
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Fu così che le grida “viva la guerra” consegnarono alla Storia le “radiose giornate di maggio”. Il 24 maggio, senza che vi fosse nessuna discussione in Parlamento, che di fatto venne messo in quarantena fino al 4 novembre del 1918, giorno della Vittoria, l’Italia di sua Maestà Vittorio Emanuele III dichiarò guerra all’Impero Austro-Ungarico e alla Germania del Kaiser Guglielmo, con i quali eravamo alleati soltanto dodici mesi prima. Il Paese passava da un’alleanza all’altra come in un giro di valzer, ma avrebbe almeno finito la guerra dalla stessa parte.
Il Parlamento, infatti, subì il famoso “Trattato di Londra”, accordo segreto (divulgato soltanto a cavallo tra il 1917 e il 1918 nell’imbarazzo generale…) che il governo italiano aveva firmato il 26 aprile 1915 con le potenze della Triplice Intesa per scendere in guerra contro gli Imperi Centrali entro un mese. Un’intesa che l’Italia rispettò con due giorni di anticipo, dando prova di una volontà che scopriva e rispecchiava gli interessi di coloro che erano coinvolti nelle forniture di guerra e della Corona che ardeva dal desiderio di ritagliarsi un posto nella storia per compensare altri e noti deficit.
Al Parlamento il bavaglio venne poi generosamente tolto, ma per breve tempo: con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, avallata da monarchia, vertici dell’esercito e industriali, Mussolini s’incaricò di mettere la camicia di contenzione alla democrazia liberale, per poi soffocarla definitivamente con le elezioni del 6 aprile 1924 e con l’uccisione – un assassinio di regime – del deputato socialista Giacomo Matteotti, il 10 giugno dello stesso anno.
Ma con Mussolini e il fascismo, in effetti, ci siamo spinti oltre l’intenzione di affrontare nel merito l’ultima dichiarazione parlamentare Enrico Borghi, membro della segreteria nazionale del Pd, il quale ha sostenuto che “non è necessario che ci sia un nuovo passaggio parlamentare perché “la risoluzione approvata dal Parlamento lo scorso 1° marzo autorizza il governo a operare in tal senso fino al 31 dicembre prossimo, chiarendo che è consentita la cessione di apparati e strumenti militari che consentano all’Ucraina di esercitare il diritto alla legittima difesa e di proteggere la popolazione”.
In altri termini, secondo Borghi, la risoluzione è l’ombrello sotto cui il governo si ripara (o può ripararsi) dinanzi a qualunque evoluzione del conflitto. Evoluzione che dal 1° marzo nella sostanza è avvenuta. E ne fanno fede le dichiarazioni sia di Putin, che minaccia l’uso di armi che nessun altro paese possiede, sia dell’amministrazione Biden che con il segretario di Stato Usa Antony Blinken e il segretario della Difesa Llyod Austin affermano che la guerra in Ucraina mira a indebolire la Russia e dissuaderla dal compiere nuove aggressioni ai danni di altri paesi. Una posizione che è stata raccolta e condivisa dal ministro della difesa britannico Ben Wallace.
Quindi ancora armi per la difesa di Kiev, evitando lo stucchevole distinguo da leguleio tra “armi difensive” e “armi offensive”, entrano nella prospettiva di una nuova strategia militare. A questo punto, però, il cittadino avrebbe diritto di sapere se l’Italia rientra nella nuova strategia, se non altro per essere membro dell’Alleanza Atlantica e ne condivide l’obiettivo o se, all’opposto, continua a inviare armi all’Ucraina a titolo “personale”, nel rispetto della sua sovranità per una giusta causa.
Ora si comprenderà che l’interrogativo è tutt’altro che capzioso, e quanto si profili la necessità di scomodare gli articoli 11 e 78 della Costituzione1 se l’affermazione dell’onorevole Enrico Borghi dovesse ricadere sulla prima opzione e sulla risoluta determinazione dell’Occidente di piegare lo Czar Putin e la Federazione Russa, anche a rischio di una catastrofe nucleare che da 6 agosto del 1945, dalla bomba su Hiroshima, l’umanità è costretta a contemplare.
Naturalmente, pur continuando a insistere per la ricerca della pace e l’intervento delle Nazioni Unite, ad un tempo continuiamo a credere nella lealtà del nostro governo e degli alleati. Tuttavia sarebbe come minimo sgradevole, scoprire un giorno che tale lealtà era riposta, esattamente come nell’aprile del 1915, su patti segreti firmati alle nostre spalle. E, soprattutto, prefigurarsi il dopo…
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1Art. 11 L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
Art. 78 Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari.
Posted on: 2022/04/28, by : admin
Art. 78 Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari.
Posted on: 2022/04/28, by : admin