Draghi in Libia: buone intenzioni sullo sfondo di una triste realtà che non va nascosta

di Germana Tappero Merlo |

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Ottimismo, fiducia, buon senso e progetti di lungo periodo per la rinascita della Libia abbondano nei commenti della stampa nostrana nel raccontare la visita di Mario Draghi a Tripoli – tra l’altro, la prima all’estero dal suo insediamento, a dare ancora più risalto all’evento – e l’incontro con il Primo ministro Abdel Hamid Dbeibah, fresco di incarico per un governo unificato sotto l’egida dell’Onu. A dieci anni dalla sciagurata guerra a Gheddafi, in una Libia ancora destabilizzata, si cerca il suo recupero: facce nuove nell’esecutivo, elezioni previste a fine anno, un nemico, il gen. Haftar della Cirenaica, meno pericoloso perché, anche grazie alle pressioni internazionali, gli è stato sospeso il supporto militare da parte di potenze, quali la Russia, e quello della Francia (da spionaggio a forze speciali), e addirittura si parla già del ritorno dell’ambasciatore della UE a Tripoli. Un segnale forte, questo, da parte del Vecchio Continente al processo di riconciliazione nazionale. Insomma, per la Libia si prospetta un futuro che pare vicino, carico di buone intenzioni, di voglia di normalità, stimolante e luminoso, quindi, come le calde giornate primaverili di quella parte di Nord Africa.

La vergogna dei centri di raccolta libici governativi

È stato un ribadire che l’Italia è vicina alla martoriata Libia, che comunque non ha mai abbandonata anche solo con il permanere del nostro ospedale militare a Misurata, e con l’invio di nostri istruttori per rinnovare le forze di polizia e quelle armate regolari locali. Un’Italia che rivuole il ristabilimento degli accordi del 2008, l’interscambio economico e culturale ai livelli di 5-6 anni fa, il nostro intervento in infrastrutture, come autostrade, e la collaborazione di Tripoli con l’Eni e molto altro ancora, tanto da far affermare a osservatori e diplomatici che quanto è avvenuto a Tripoli non è stata solo una passerella politica. Non sono mancate però le critiche, in particolare per l’affermazione di Draghi su quanto di buono fa la Libia con la sua guardia costiera (addestrata da noi e dai turchi), per contrastare l’immigrazione illegale, quella dei disperati clandestini che vengono raccolti in mare o giungono nottetempo sulle coste italiane. Perché di fatto, e come sottolineato da più fronti, la guardia costiera libica li blocca, è vero, ma li costringe a ritornare in un territorio in cui circa 10mila persone sono rinchiuse nei centri di raccolta governativi, ma altre 700mila sono allo sbando lungo tutta la costa libica, in attesa di un passaggio via mare gestito da bande di criminali, di cui ormai si conoscono addirittura le generalità. Alcuni di questi malavitosi gestiscono persino campi di raccolta a cui l’Unhcr è impedito entrare. Inimmaginabili, poi, alle nostre menti, le condizioni di vita, gli abusi e le violazioni dei diritti umani, avvenuti in quelle strutture, sia regolari che illegali. Tutto, o in parte, già rigorosamente accertato.

Diplomazia ad alto livello, ma l’Africa soffoca tra guerre e scontri tribali

I respinti dal mare verso la Libia da parte di quelle motovedette non sono libici, vittime della guerra del 2011 e di ciò che ne è seguito. Arrivano per lo più dai conflitti di ogni genere che sono esplosi all’indomani della caduta di Gheddafi, dal Mali al Ciad, passando dal Niger alla Repubblica Democratica del Congo: sono i sopravvissuti alle violenze che portano il nome di affiliati ad al-Qaeda, Stato Islamico e ai conflitti condotti in quei paesi dall’Occidente in nome di una lunga guerra al terrore, a cui si sono aggiunti rivendicazioni territoriali locali, scontri intra-tribali e tanto altro, anche per procura di potenze straniere. Sono i sopravvissuti all’attraversamento del deserto, pagando profumatamente passaggi in carovane di trafficanti a prezzi decine di volte superiori a un volo aereo o un viaggio in nave regolari, se solo non ci fosse il limite dei visti all’entrata nella Vecchia Europa. La guardia costiera libica li respinge su procura e pagamento proprio di quella Vecchia Europa che ora vuole il ritorno a una Libia pacifica. E per questo i massimi vertici dell’Unione, come Ursula von Der Leyen e Charles Michel (con un’incredibile caduta di signorilità nei confronti della prima, cui viene negata la sedia, immagine che ha fatto il giro del mondo) volano in Turchia da Erdogan anche per parlare di cosa intende fare in quel di Tripoli degli accordi, siglati a suo tempo con al-Sarraj, per ampliare le rispettive zone marittime nel Mediterraneo orientale a danno della Grecia, sino alla presenza di foreign fighters che Ankara ha fatto trasportare dallo scenario siriano a quello libico, a proprie spese e sui propri aerei militari.

L’affarismo di mercenari e agenzie di “contractor”

Da un corposo rapporto di esperti nominati dall’Onu1, ed indirizzato al Consiglio di Sicurezza, ad inizio marzo 2021, si parla di 13mila combattenti siriani, inclusi 200 minori hanno combattuto su entrambi i fronti libici, mentre mercenari dal Ciad e dal Sudan – alcuni addestrati negli Emirati – combattevano per il gen. Haftar a fianco dei contractor russi della Wagner, a cui si sarebbero dovuti aggiungere anche quelli dell’agenzia statunitense di Erik Prince, titolare di quella Blackwater rea dei peggiori incubi iracheni. In Libia Prince avrebbe investito 80 milioni di dollari, fra combattenti ed armi, velivoli e tecnologia per la guerra cyber e, si legge nel rapporto Onu, vi sarebbero stati piani (Project Opus) per addestrare personale militare nel compiere omicidi mirati e rapimenti di personalità politiche e militari libiche nemiche, senza disdegnare cittadini europei presenti in zona. Piani falliti come spesso accade con progetti d’affari, perché di questo si tratta oramai, ossia delle guerre moderne come occasioni di lucrosi contratti, in cui l’intraprendenza privata si intromette e gioca le sue carte, in complessi scenari geopolitici. E in Libia, come in gran parte dei conflitti in Africa sopracitati, agenzie di contractors fanno grandi affari.

Fra i piani riusciti, invece, in Libia, per il supporto di uomini, materiale bellico e logistico, il rapporto Onu evidenzia responsabilità di Egitto, Russia, Giordania, Turchia, EAU, ed altre nazioni, anche spiantate, come una Siria, a quanto pare non paga della guerra e delle violenze a casa propria e complice in quell’affare di Mosca. Tutti avrebbero violato l’embargo Onu, con droni, aerei, missili terra-aria, veicoli corazzati e pezzi d’artiglieria. Tutto ciò è ancora in Libia, e poco importa se il ritiro di quelle forze è condizione fondamentale perché si torni a parlare di trattative di pace sotto l’egida dell’Onu. Per ora poco o pressoché nulla è stato fatto in quella direzione. Ma non è tutto. Il Paese è ancora molto diviso, infatti, al suo interno e venti di nostalgico gheddafismo, contrapposto al più moderno separatismo, soffiano ancora prepotenti, alimentando i più cupi timori per un futuro di pace per quel Paese.

Il rilancio internazionale dell’Italia: attenzione alle passerelle

L’entusiasmo per la visita di Draghi è tutto dovuto ad una retorica di buone intenzioni che certamente servono nelle relazioni diplomatiche e per uscire dal baratro di situazioni complesse. Ma non sono più sufficienti per scenari sempre più articolati, dai molteplici attori coinvolti. Si è voluto rilanciare il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, e ciò va anche bene. Come pure, e sicuramente, da qualche parte bisognerà pur iniziare per compiere un passo verso la pacificazione e la ripresa di quel Paese, dalla valenza, per ricchezza di idrocarburi e posizione geografica, strategica anche per la sicurezza, e non solo energetica, dell’Italia. Basteranno le buone intenzioni? Per avere un ruolo determinante in contesti conflittuali così complessi è necessario, per l’Italia e i suoi rappresentanti politici, un peso politico internazionale che poggia su credibilità, che a sua volta dipende dalla capacità di mediazione, del compromesso fatto di conoscenza globale e di visione ad ampio respiro anche del futuro del continente africano, alla quale la Libia appartiene.

La Libia troverà la sua riappacificazione nel momento in cui le grandi contraddizioni che scuotono fino allo spasimo il resto dell’Africa con conflitti limitati ma sanguinari saranno finalmente risolte. Altrimenti si sarà trattato, ancora una volta, dell’ennesima passerella, più a nostro fugace e precario vantaggio, fino appunto alla prossima ondata di disperati migranti sulle nostre coste.

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