Eguaglianza e capacità contributiva progressiva, valori cardine dell’art. 53 della Costituzione

di Anna Paschero|

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L’analisi della legislazione prodotta in materia fiscale negli ultimi cinquant’anni evidenzia come i principi e i criteri contenuti nell’art. 53 – che sintetizza perfettamente l’ideologia egualitaria sancita all’art. 3 della Costituzione Repubblicana – siano stati sostanzialmente traditi. Il filone solidaristico di cui l’art. 53 con i suoi due commi1 rappresenta una delle espressioni più significative, indica la scelta di come ottenere le risorse per attuare tale eguaglianza: far pagare a ciascuno una quota dei servizi, a prescindere dall’effettiva fruizione, secondo le proprie condizioni economiche, ovvero tenendo conto della propria capacità contributiva2. Dopo di che lo sforzo fiscale non può essere uguale per tutti, ma ottenuto modulando diversamente la percentuale di reddito da destinare alla contribuzione fiscale attraverso il principio della progressività. Ossia, chi più guadagna, più deve contribuire destinando una percentuale maggiore al fisco in modo da ottenere il più possibile una perequazione tra i redditi.

Dal verbale dell’Assemblea Costituente del 23 maggio 1947, l’on.le Salvatore Scoca, magistrato, eletto nelle file della Democrazia Cristiana – relatore per l’art. 53 – chiarisce bene il significato del termine “progressività”: “Ho sempre pensato che chi ha 10 mila lire di reddito e ne paga 1000 allo Stato con l’aliquota del 10% si troverà con 9 mila lire da impiegare per i suoi bisogni privati; mentre chi ne ha 100.000, dopo aver pagato l’imposta del 10%, si troverà con una disponibilità di 90 mila lire. È ovvio che per pagare l’imposta il primo contribuente sopporta un sacrificio di gran lunga maggiore del secondo e che sarebbe equo alleggerire l’aggravio del primo e rendere un po’ meno leggero il secondo, Si può discutere sulla misura della progressività, non sul principio”.

La Legge delega 825/1971, aveva definito con estrema chiarezza gli indici di capacità contributiva da realizzarsi attraverso l’applicazione dell’imposta al reddito complessivo effettivo netto delle persone fisiche, comunque conseguito, ottenuto con la “deduzione dal reddito complessivo di oneri e spese rilevanti che incidono sulla situazione personale del contribuente”. Inoltre l’attuazione del principio della progressività veniva garantito da un numero sufficiente di aliquote, 32, applicate a corrispondenti scaglioni di reddito che venivano tassati dal 10 al 72%. Oggi gli scaglioni di reddito sono diventati cinque, e sono tassati dal 23 al 43%. È del tutto evidente come il peso fiscale sia stato spostato, nel tempo, dai redditi più alti a quelli più bassi.

Restano numerosi gli atti di riforma del fisco depositati nei due rami del Parlamento e rimasti tuttora incompiuti: è del tutto evidente che tale percorso incontra inspiegabili resistenze ad affermarsi nel nostro Paese. Su questo piano è stata fortemente deludente la proposta Tremonti del 2012, che prevedeva la riduzione a 3 in luogo degli attuali 5 scaglioni di reddito e degli iniziali 32, in virtù di una maldestra giustificazione di semplificazione del sistema. Oggi si ritorna a parlare di riforma del fisco, anche su sollecitazione della stessa Commissione Europea che chiede all’Italia di affrettarne i passi perché essa grava principalmente sul lavoro ed è superiore alla media dell’Unione Europea di 2,6 punti percentuali. La stessa Commissione punta il dito sull’evasione fiscale, ancora molto diffusa in Italia, stimandola in oltre 109 miliardi di Euro, imputabile in maggior misura a reddito non dichiarato, mentre il debito pubblico italiano resta un’importante fonte di vulnerabilità per l’economia a causa del recente deterioramento del saldo primario e dei costi connessi all’invecchiamento della popolazione. Gli elevati costi del servizio del debito riducono inoltre il margine di bilancio per adottare politiche anticicliche e favorevoli per la crescita.

Ma di quale riforma del fisco stiamo parlando? Sostiene Luciano Gallino nel suo saggio “Lotta di classe – dopo la lotta di classe” (Ed. Laterza, 2012) che “la lotta di classe, oggi, è quella di chi non è soddisfatto del proprio destino e vuole cambiarlo, e quella di chi invece è soddisfatto del proprio destino e vuole difenderlo”. Il conflitto è durissimo: la classe dei “capitalisti per procura” che gestiscono trilioni di miliardi di danaro altrui sta consumando la sua rivincita ai danni della “classe dei perdenti”. Si riducono le tasse ai ceti più abbienti e si sposta il carico tributario a vantaggio della rendita e a svantaggio dei ceti più deboli. Succede così che un lavoratore italiano che lavora 1500 ore all’anno paga più imposte di chi, a parità di guadagno e senza muovere un dito ne paga poco più della metà. Così come nel mondo succede che lo 0,5% della popolazione più ricca detenga 69 trilioni di dollari, mentre il 68% della popolazione detenga solo 8 trilioni di dollari: è la disuguaglianza elevata a “modello di sviluppo” che oggi purtroppo domina la scena. Paolo Sylos Labini già nel 1974 spiegava nel suo “Saggio sulle classi sociali” la crisi globale e la spinta egemonica e tendenzialmente antidemocratica di una parte del capitalismo italiano contemporaneo, approfondendone gli effetti sulla distribuzione del reddito e sulle politiche fiscali, definendo come popolo e nazione a se l’élite allora (ed oggi) al potere che comanda il super stato più forte del mondo. Quello dei ricchi.

Ad oggi non è ancora cambiato nulla, ma l’auspicio è che qualcosa possa ancora cambiare. Staremo a vedere dove ci porterà il prevedibile conflitto tra la “flat tax “di Salvini e la visione “progressiva” del fisco annunciata da Mario Draghi.

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1Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
2Concetto di capacità contributiva così come originariamente interpretato dai nostri padri costituenti, ovvero come idoneità economica dell’individuo a concorrere alle spese pubbliche.




Posted on: 2021/02/23, by :