Enzo Bianchi, la comunità di Bose e il futuro
di Luca Rolandi |
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Che cosa sta succedendo a Bose? Da ieri, quando la comunità di Bose ha diramato un comunicato nel quale le parole sono molto esplicite ed eloquenti, così come le decisioni, il mondo cattolico e non solo sono pervasi in un profondo senso di amarezza, frustrazione e disorientamento. Perché la decisione di allontanare Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose nel 1965, insieme ad altri tre membri della stessa comunità, che dovranno lasciarla e trasferirsi in altro luogo decadendo da tutti gli incarichi, è davvero una notizia che nessuno poteva prevedere al di fuori dal muro comunitario.
Una decisione stabilita da un decreto a firma del cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, approvato specificamente da Papa Francesco, che arriva dopo “prolungato e attento discernimento” e dopo la visita apostolica durata oltre trenta giorni, dal 6 dicembre al 6 gennaio scorsi. “Come da noi annunciato a suo tempo, in seguito a serie preoccupazioni – si legge nella nota – pervenute da più parti alla Santa Sede che segnalavano una situazione tesa e problematica nella nostra Comunità per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno”, Francesco ha disposto una visita apostolica. A compierla sono stati padre Guillermo León Arboleda Tamayo, abate Presidente della Congregazione Benedettina Sublacense-Cassinese, padre Amedeo Cencini, consultore della Congregazione per i religiosi, e madre Anne-Emmanuelle Devéche, abbadessa di Blauvac”. Questo uno stralcio della nota pubblicata sul sito ufficiale della Comunità ecumenica e monastica di Bose. Ora arriverà un delegato pontificio per guidare la transizione.
Fin qui i fatti. Ma non possiamo rimanere a questa realtà, perché la Comunità di Bose, forse più di ogni altra esperienza, ha rappresentato la punta più avanzata dell’applicazione del Concilio Vaticano II, nell’ambito della dimensione del vissuto monastico (con la presenza nel monastero di fratelli e sorelle insieme) e nel cuore del cammino di riconciliazione ecumenica tra i cristiani. Certo la storia della Comunità di Bose non è stata mai facile, soprattutto nei primi anni in cui, Enzo Bianchi, studente universitario monferrino, iscritto a Economia e Commercio, decide dopo aver sperimentato una prima esperienza comunitaria in città, decide proprio il giorno della fine del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1965, di trasferirsi in una frazione del Comune di Magnano, sotto la serra morenica, tra Biella e Ivrea. Lo seguono i primi amici che diventeranno i confratelli nei primi anni e fino agli anni Settanta, la Comunità vive in una dimensione piccola e fragile, sostenuto da lontano da padre Pellegrino, arcivescovo di Torino, e dal vescovo conciliare Luigi Bettazzi, giunto ad Ivrea nel 1966. Molti dubbi tra le autorità ecclesiastiche centrali e locali, ma tanta profezia e contatti con i monasteri benedettini, ortodossi e cattolici, in Belgio e Svizzera, come riferimenti.
Il ruolo di Enzo Bianchi è carismatico e fondamentale, in cinquantacinque anni di vita la comunità cresce, si espande nella sua dimensione umana, spirituale e di accoglienza e si trasferisce anche fuori dalla sua base biellese: Ostuni, Gerusalemme e Assisi. Diventano monaci e monache giovani e meno giovani, che lavorano all’esterno, che si impegnano nel lavoro della terra e nella cultura. Ma soprattutto per tutti questi decenni Bose è diventato un luogo di accoglienza, aperto a tutti: credenti e non credenti: seminari, settimane teologiche e di spiritualità, dialoghi, convegni. Un punto di riferimento nazionale e internazionale. Bose è Bianchi, ma con il tempo non solo lui. Tanti i monaci e le monache per la competenza, la profondità teologica, la forte spiritualità, la comunità va oltre, come è naturale che fosse, al suo fondatore. La Qiqajon è una preziosa realtà nel panorama editoriale di settore e tanto altro ancora.
Quando nel gennaio 2017 il priore Enzo Bianchi rimetteva il suo mandato e affidava la cura della Comunità al suo successore, il reggiano Luciano Manicardi, fine biblista e monaco molto amato dalla comunità e oratore apprezzato, tutto sembrava compiuto. Enzo Bianchi, il fondatore, lasciava spazio ai più giovani. Forse qualcosa si è rotto, sicuramente contrasti interni, problemi irrisolti che hanno convinto la Comunità ad chiedere l’aiuto a Papa Francesco, che da sempre ha apprezzato la Comunità di Bose e chiamato il suo fondatore ad incarichi importanti. La decisione di ieri e la fine di un binomio tra Enzo Bianchi e Comunità di Bose diventano una ferita profonda. La speranza è che si ricomponga nel tempo e che le parole, taglienti e dure, che si leggono sui social di alcuni tra i protagonisti, siano solo la condizione di un momento. Perché Bose non può finire, la sua esperienza è senza dubbio stata molta più luce che buio, virtù e non vizio, dialogo e non scontro, valore dell’umano come espressione del cristiano.
Perdere questa dimensione sarebbe un passo indietro per quello che Bose ha rappresentato per migliaia di laici e religiosi che si sono accostati, hanno conosciuto ed hanno camminato, pregato e seguito l’esperienza di Bose dai propri territori, nelle chiese locali, nei circoli culturali, nella dimensione di confronto con la modernità in una logica inclusiva e dialogica e non in esclusiva. Sarebbe amaro nel tempo della Chiesa di Francesco che si spegnesse un’oasi, certo fragile perché umana, ma profetica e con una visione di lungo periodo, come quella di Bose. Forse è un passo necessario. E come scrive un amico che a Bose ha vissuto oltre un decennio come monaco “Fu chiesto a un anziano monaco: “Abba, cosa fate voi qui nel deserto?”. L’abba rispose: “Noi cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo, cadiamo ancora e ci rialziamo ancora”. La vicenda di Bose racconta che abbiamo bisogno di ritrovarci tutti nella pari dignità della fede e della vita, insieme umani e fragili. Anche quando sembra di avere trovato uno spazio di serenità e pace.
Posted on: 2020/05/27, by : admin
Una decisione stabilita da un decreto a firma del cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, approvato specificamente da Papa Francesco, che arriva dopo “prolungato e attento discernimento” e dopo la visita apostolica durata oltre trenta giorni, dal 6 dicembre al 6 gennaio scorsi. “Come da noi annunciato a suo tempo, in seguito a serie preoccupazioni – si legge nella nota – pervenute da più parti alla Santa Sede che segnalavano una situazione tesa e problematica nella nostra Comunità per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno”, Francesco ha disposto una visita apostolica. A compierla sono stati padre Guillermo León Arboleda Tamayo, abate Presidente della Congregazione Benedettina Sublacense-Cassinese, padre Amedeo Cencini, consultore della Congregazione per i religiosi, e madre Anne-Emmanuelle Devéche, abbadessa di Blauvac”. Questo uno stralcio della nota pubblicata sul sito ufficiale della Comunità ecumenica e monastica di Bose. Ora arriverà un delegato pontificio per guidare la transizione.
Fin qui i fatti. Ma non possiamo rimanere a questa realtà, perché la Comunità di Bose, forse più di ogni altra esperienza, ha rappresentato la punta più avanzata dell’applicazione del Concilio Vaticano II, nell’ambito della dimensione del vissuto monastico (con la presenza nel monastero di fratelli e sorelle insieme) e nel cuore del cammino di riconciliazione ecumenica tra i cristiani. Certo la storia della Comunità di Bose non è stata mai facile, soprattutto nei primi anni in cui, Enzo Bianchi, studente universitario monferrino, iscritto a Economia e Commercio, decide dopo aver sperimentato una prima esperienza comunitaria in città, decide proprio il giorno della fine del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1965, di trasferirsi in una frazione del Comune di Magnano, sotto la serra morenica, tra Biella e Ivrea. Lo seguono i primi amici che diventeranno i confratelli nei primi anni e fino agli anni Settanta, la Comunità vive in una dimensione piccola e fragile, sostenuto da lontano da padre Pellegrino, arcivescovo di Torino, e dal vescovo conciliare Luigi Bettazzi, giunto ad Ivrea nel 1966. Molti dubbi tra le autorità ecclesiastiche centrali e locali, ma tanta profezia e contatti con i monasteri benedettini, ortodossi e cattolici, in Belgio e Svizzera, come riferimenti.
Il ruolo di Enzo Bianchi è carismatico e fondamentale, in cinquantacinque anni di vita la comunità cresce, si espande nella sua dimensione umana, spirituale e di accoglienza e si trasferisce anche fuori dalla sua base biellese: Ostuni, Gerusalemme e Assisi. Diventano monaci e monache giovani e meno giovani, che lavorano all’esterno, che si impegnano nel lavoro della terra e nella cultura. Ma soprattutto per tutti questi decenni Bose è diventato un luogo di accoglienza, aperto a tutti: credenti e non credenti: seminari, settimane teologiche e di spiritualità, dialoghi, convegni. Un punto di riferimento nazionale e internazionale. Bose è Bianchi, ma con il tempo non solo lui. Tanti i monaci e le monache per la competenza, la profondità teologica, la forte spiritualità, la comunità va oltre, come è naturale che fosse, al suo fondatore. La Qiqajon è una preziosa realtà nel panorama editoriale di settore e tanto altro ancora.
Quando nel gennaio 2017 il priore Enzo Bianchi rimetteva il suo mandato e affidava la cura della Comunità al suo successore, il reggiano Luciano Manicardi, fine biblista e monaco molto amato dalla comunità e oratore apprezzato, tutto sembrava compiuto. Enzo Bianchi, il fondatore, lasciava spazio ai più giovani. Forse qualcosa si è rotto, sicuramente contrasti interni, problemi irrisolti che hanno convinto la Comunità ad chiedere l’aiuto a Papa Francesco, che da sempre ha apprezzato la Comunità di Bose e chiamato il suo fondatore ad incarichi importanti. La decisione di ieri e la fine di un binomio tra Enzo Bianchi e Comunità di Bose diventano una ferita profonda. La speranza è che si ricomponga nel tempo e che le parole, taglienti e dure, che si leggono sui social di alcuni tra i protagonisti, siano solo la condizione di un momento. Perché Bose non può finire, la sua esperienza è senza dubbio stata molta più luce che buio, virtù e non vizio, dialogo e non scontro, valore dell’umano come espressione del cristiano.
Perdere questa dimensione sarebbe un passo indietro per quello che Bose ha rappresentato per migliaia di laici e religiosi che si sono accostati, hanno conosciuto ed hanno camminato, pregato e seguito l’esperienza di Bose dai propri territori, nelle chiese locali, nei circoli culturali, nella dimensione di confronto con la modernità in una logica inclusiva e dialogica e non in esclusiva. Sarebbe amaro nel tempo della Chiesa di Francesco che si spegnesse un’oasi, certo fragile perché umana, ma profetica e con una visione di lungo periodo, come quella di Bose. Forse è un passo necessario. E come scrive un amico che a Bose ha vissuto oltre un decennio come monaco “Fu chiesto a un anziano monaco: “Abba, cosa fate voi qui nel deserto?”. L’abba rispose: “Noi cadiamo e ci rialziamo, cadiamo e ci rialziamo, cadiamo ancora e ci rialziamo ancora”. La vicenda di Bose racconta che abbiamo bisogno di ritrovarci tutti nella pari dignità della fede e della vita, insieme umani e fragili. Anche quando sembra di avere trovato uno spazio di serenità e pace.
Posted on: 2020/05/27, by : admin