Fascismo, il virus dalle troppe varianti in Italia
di Stefano Marengo |
|Dopo l’inchiesta sulla “lobby nera” pubblicata da Fanpage, la destra italiana ci ha tenuto a far sapere che saluti romani, “boia chi molla”, inneggiamenti a Hitler e insulti contro “negri” ed ebrei sono soltanto “atteggiamenti goliardici”. Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, primi passi nella politica mossi nel Fronte della Gioventù, costola del Movimento sociale italiano,
ha comunicato che nel suo partito “non c’è spazio per razzisti, antisemiti e paranazisti”. Ma i fatti dimostrano il contrario, mentre si dovrebbe dedurre che lo stesso spazio esista per i fascisti che la Meloni non menziona suo elenco.
Lo scenario che emerge porta a pensare che Umberto Eco avesse davvero ragione quando, negli anni Novanta, teorizzava il “fascismo eterno” o Ur-Fascismo, ossia il fascismo inteso quale pattern antropologico che torna continuamente a manifestarsi, in forme rinnovate, in epoche e contesti differenti. Lo scrittore, con ciò, non intendeva certo lasciarsi andare al fatalismo, anzi spiegava come la sua tesi volesse essere uno strumento diagnostico per individuare il virus fascista e debellarlo ovunque si annidasse. A monte, tuttavia, rimane da chiedersi come mai l’Italia sia ancora oggi, nel 2021, particolarmente soggetta a contrarre la “malattia nera”.
La scarsa immunizzazione antifascista del nostro paese appare dovuta almeno a due ordini di fattori: all’emergere di un certo tipo di narrazione accondiscendente, quando non apertamente apologetica del fascismo, che iniziò a diffondersi nel dopoguerra; al sostanziale rifiuto di ampi settori delle classi dirigenti repubblicane di fare compiutamente i conti con il Ventennio, un rifiuto sulla cui base si giunse addirittura a tentativi da parte di alcuni governi di intessere alleanze (esplicite o, il più delle volte, implicite) con le destre neofasciste.
Per quanto concerne il primo aspetto, Michele Ruggiero ha centrato perfettamente il punto in un articolo comparso su La Porta di Vetro il mese scorso, in occasione dell’anniversario dell’8 Settembre, in cui scrive che la data “è il paradigma di un Paese allevato e cresciuto nella menzogna e nelle rodomontate di una dittatura feroce più di quanto non dicano i numeri dei prigionieri politici, di coloro condannati al confino e di vittime, che per un Ventennio aveva disarticolato il senso di Nazione per nutrire insieme ad un falso sé anche il concetto di Patria. Il caos generato dall’8 Settembre 1943 entrò negli interstizi delle coscienze per il superamento di quella pagina vergognosa. Dalla resa nacque la Resistenza e la lotta contro l’occupante germanico. Ma negli anni successivi, la data diventerà anche una potente leva revanscista degli eredi del Fascismo, padri, figli e nipotini della Repubblica di Salò, complici dei nazisti e delle stragi di civili e di partigiani. Paradossalmente, è proprio dall’8 Settembre che prende corpo il primo capitolo della saga che dividerà e continua a dividere gli italiani, destra e sinistra, sul concetto di Patria (chi l’ha difesa e da chi?), e sulle categorie di “bene e male”, termini che in quel preciso contesto storico non dovrebbero essere messi in discussione nella loro attribuzione e collocazione (democrazia versus nazifascismo), anche in un quadro di doverosa e sempre utile revisione storica”.1
Se una narrazione come quella fascista così platealmente falsa ha potuto acquisire qualche credibilità, le ragioni sono numerose. Al termine del conflitto, la scoperta dell’enormità dei crimini della Germania nazista fece scivolare in secondo piano i crimini che il fascismo aveva commesso in proprio, come lo scatenamento di una guerra di aggressione o i massacri perpetrati nei territori occupati. Per i fascisti, il nazismo divenne un tappeto sotto cui nascondere lo sporco di casa.
Un tappeto, per giunta, sufficientemente ampio da consentire di occultare anche gli orrori che avevano preceduto la guerra. Un elenco lungo e vergognoso: le avventure coloniali di Libia ed Etiopia, con la deportazione e genocidio dei nativi e, nel caso etiope, l’uso di armi chimiche; il sostegno politico e militare garantito alla Spagna franchista; l’italianizzazione forzata e la pulizia etnica di territori abitati da minoranze linguistiche; le leggi razziali che, se non poterono essere negate, furono da allora sempre minimizzate come un errore commesso per compiacere i tedeschi (perché si sa, gli italiani “brava gente” non sono razzisti…).
Si dice giustamente che al termine della guerra mancò una Norimberga italiana. Se non ci fu, tuttavia, non si trattò di un caso. La coltre di silenzio che, al di là delle formule retoriche, fu calata sulle colpe del fascismo rispondeva a precisi interessi politici in un mondo che andava rapidamente dividendosi in blocchi contrapposti. Gli eredi del regime, in questo modo, divennero rapidamente degli interlocutori con cui giocare di sponda in una logica anticomunista che ebbe il suo apice nel Governo Tambroni (1960), un monocolore DC che si reggeva sull’appoggio esterno del MSI. Contestualmente, sempre con la giustificazione della guerra fredda, la Repubblica non attuò mai per davvero la defascistizzazione dello Stato, di quei “corpi separati” (magistratura, forze dell’ordine e forze armate, cui aggiungiamo la burocrazia statale) che lo storico Guido Quazza evidenziò nei suoi studi degli anni Settanta.
L’Italia democratica si ritrovò a convivere con un’intera classe di dirigenti e funzionari collusi con il fascismo rimasta saldamente al suo posto. E non solo. Non saremmo poi così distanti dal vero se individuassimo in ciò la radice storica di quegli apparati “deviati” che, tra anni Sessanta e Ottanta, avrebbero stretto alleanza con i gruppi dell’eversione “nera” per scrivere le pagine più buie della nostra storia recente, da Gladio alla P2, passando per Piazza Fontana, il golpe Borghese e la strage alla stazione di Bologna.
Su questo fondale, anche l’amnistia, voluta nel 1946 dal leader comunista nel suo ruolo di Guardasigilli Palmiro Togliatti, si rivelò presto un boomerang: in mancanza di una Norimberga italiana, ossia di un riconoscimento ufficiale, pubblico e definitivo delle responsabilità del regime, il condono delle pene “per reati comuni, politici e militari” commessi durante l’occupazione nazifascista – come decine e decine di torturatori e assassini messi in libertà – fu inteso e vissuto non come un atto di grazia doloroso, necessario per raggiungere la pacificazione nazionale, ma come una sostanziale negazione dei reati stessi, un giudizio di non colpevolezza da cui poteva procedere la rilegittimazione politica del fascismo.
Si potrebbero ancora aggiungere alcune considerazioni (che meriterebbero ulteriore approfondimento) sul profilo sociologico dell’Italia dal secondo dopoguerra a oggi, epoca in cui le tare storiche del nostro paese, dall’inadeguatezza della borghesia “stracciona” al permanere di sacche consistenti di sottoproletariato, non solo non sono state mai davvero superate, ma hanno costituito il brodo di coltura per la perpetuazione di posture politiche quantomeno accondiscendenti nei confronti del fascismo e dei suoi eredi. In estrema sintesi, possiamo dire che il contesto che venne a crearsi dopo la guerra – ossia il contesto della Guerra fredda e, al suo interno, il contesto italiano – fu tale non solo da impedire, da parte della coscienza del paese, un confronto senza attenuanti con il Ventennio, ma finì con il ridare un credito e agibilità politica alla narrativa vittimistica e autoassolutoria dei nostalgici del regime.
La Repubblica, insomma, non ha saputo (potuto? voluto?) espellere il virus fascista dal proprio corpo, e proprio come un virus il fascismo si è replicato con più varianti, tornando periodicamente a infettare la politica e la società italiana. Stanno qui e non altrove le ragioni per cui ancora oggi un dirigente di partito può definire goliardate gli inneggiamenti a Hitler o gli insulti a “negri” ed ebrei senza suscitare un unanime coro di sdegno e protesta. D’altronde, il fatto stesso che l’inchiesta sulla “lobby nera” di Fanpage, dopo il fisiologico clamore iniziale, sia già sul punto di scomparire dal dibattito pubblico non è che l’ennesima conferma della correttezza dell’analisi. E questa è la cosa più preoccupante. _______
Lo scenario che emerge porta a pensare che Umberto Eco avesse davvero ragione quando, negli anni Novanta, teorizzava il “fascismo eterno” o Ur-Fascismo, ossia il fascismo inteso quale pattern antropologico che torna continuamente a manifestarsi, in forme rinnovate, in epoche e contesti differenti. Lo scrittore, con ciò, non intendeva certo lasciarsi andare al fatalismo, anzi spiegava come la sua tesi volesse essere uno strumento diagnostico per individuare il virus fascista e debellarlo ovunque si annidasse. A monte, tuttavia, rimane da chiedersi come mai l’Italia sia ancora oggi, nel 2021, particolarmente soggetta a contrarre la “malattia nera”.
La scarsa immunizzazione antifascista del nostro paese appare dovuta almeno a due ordini di fattori: all’emergere di un certo tipo di narrazione accondiscendente, quando non apertamente apologetica del fascismo, che iniziò a diffondersi nel dopoguerra; al sostanziale rifiuto di ampi settori delle classi dirigenti repubblicane di fare compiutamente i conti con il Ventennio, un rifiuto sulla cui base si giunse addirittura a tentativi da parte di alcuni governi di intessere alleanze (esplicite o, il più delle volte, implicite) con le destre neofasciste.
Per quanto concerne il primo aspetto, Michele Ruggiero ha centrato perfettamente il punto in un articolo comparso su La Porta di Vetro il mese scorso, in occasione dell’anniversario dell’8 Settembre, in cui scrive che la data “è il paradigma di un Paese allevato e cresciuto nella menzogna e nelle rodomontate di una dittatura feroce più di quanto non dicano i numeri dei prigionieri politici, di coloro condannati al confino e di vittime, che per un Ventennio aveva disarticolato il senso di Nazione per nutrire insieme ad un falso sé anche il concetto di Patria. Il caos generato dall’8 Settembre 1943 entrò negli interstizi delle coscienze per il superamento di quella pagina vergognosa. Dalla resa nacque la Resistenza e la lotta contro l’occupante germanico. Ma negli anni successivi, la data diventerà anche una potente leva revanscista degli eredi del Fascismo, padri, figli e nipotini della Repubblica di Salò, complici dei nazisti e delle stragi di civili e di partigiani. Paradossalmente, è proprio dall’8 Settembre che prende corpo il primo capitolo della saga che dividerà e continua a dividere gli italiani, destra e sinistra, sul concetto di Patria (chi l’ha difesa e da chi?), e sulle categorie di “bene e male”, termini che in quel preciso contesto storico non dovrebbero essere messi in discussione nella loro attribuzione e collocazione (democrazia versus nazifascismo), anche in un quadro di doverosa e sempre utile revisione storica”.1
Se una narrazione come quella fascista così platealmente falsa ha potuto acquisire qualche credibilità, le ragioni sono numerose. Al termine del conflitto, la scoperta dell’enormità dei crimini della Germania nazista fece scivolare in secondo piano i crimini che il fascismo aveva commesso in proprio, come lo scatenamento di una guerra di aggressione o i massacri perpetrati nei territori occupati. Per i fascisti, il nazismo divenne un tappeto sotto cui nascondere lo sporco di casa.
Un tappeto, per giunta, sufficientemente ampio da consentire di occultare anche gli orrori che avevano preceduto la guerra. Un elenco lungo e vergognoso: le avventure coloniali di Libia ed Etiopia, con la deportazione e genocidio dei nativi e, nel caso etiope, l’uso di armi chimiche; il sostegno politico e militare garantito alla Spagna franchista; l’italianizzazione forzata e la pulizia etnica di territori abitati da minoranze linguistiche; le leggi razziali che, se non poterono essere negate, furono da allora sempre minimizzate come un errore commesso per compiacere i tedeschi (perché si sa, gli italiani “brava gente” non sono razzisti…).
Si dice giustamente che al termine della guerra mancò una Norimberga italiana. Se non ci fu, tuttavia, non si trattò di un caso. La coltre di silenzio che, al di là delle formule retoriche, fu calata sulle colpe del fascismo rispondeva a precisi interessi politici in un mondo che andava rapidamente dividendosi in blocchi contrapposti. Gli eredi del regime, in questo modo, divennero rapidamente degli interlocutori con cui giocare di sponda in una logica anticomunista che ebbe il suo apice nel Governo Tambroni (1960), un monocolore DC che si reggeva sull’appoggio esterno del MSI. Contestualmente, sempre con la giustificazione della guerra fredda, la Repubblica non attuò mai per davvero la defascistizzazione dello Stato, di quei “corpi separati” (magistratura, forze dell’ordine e forze armate, cui aggiungiamo la burocrazia statale) che lo storico Guido Quazza evidenziò nei suoi studi degli anni Settanta.
L’Italia democratica si ritrovò a convivere con un’intera classe di dirigenti e funzionari collusi con il fascismo rimasta saldamente al suo posto. E non solo. Non saremmo poi così distanti dal vero se individuassimo in ciò la radice storica di quegli apparati “deviati” che, tra anni Sessanta e Ottanta, avrebbero stretto alleanza con i gruppi dell’eversione “nera” per scrivere le pagine più buie della nostra storia recente, da Gladio alla P2, passando per Piazza Fontana, il golpe Borghese e la strage alla stazione di Bologna.
Su questo fondale, anche l’amnistia, voluta nel 1946 dal leader comunista nel suo ruolo di Guardasigilli Palmiro Togliatti, si rivelò presto un boomerang: in mancanza di una Norimberga italiana, ossia di un riconoscimento ufficiale, pubblico e definitivo delle responsabilità del regime, il condono delle pene “per reati comuni, politici e militari” commessi durante l’occupazione nazifascista – come decine e decine di torturatori e assassini messi in libertà – fu inteso e vissuto non come un atto di grazia doloroso, necessario per raggiungere la pacificazione nazionale, ma come una sostanziale negazione dei reati stessi, un giudizio di non colpevolezza da cui poteva procedere la rilegittimazione politica del fascismo.
Si potrebbero ancora aggiungere alcune considerazioni (che meriterebbero ulteriore approfondimento) sul profilo sociologico dell’Italia dal secondo dopoguerra a oggi, epoca in cui le tare storiche del nostro paese, dall’inadeguatezza della borghesia “stracciona” al permanere di sacche consistenti di sottoproletariato, non solo non sono state mai davvero superate, ma hanno costituito il brodo di coltura per la perpetuazione di posture politiche quantomeno accondiscendenti nei confronti del fascismo e dei suoi eredi. In estrema sintesi, possiamo dire che il contesto che venne a crearsi dopo la guerra – ossia il contesto della Guerra fredda e, al suo interno, il contesto italiano – fu tale non solo da impedire, da parte della coscienza del paese, un confronto senza attenuanti con il Ventennio, ma finì con il ridare un credito e agibilità politica alla narrativa vittimistica e autoassolutoria dei nostalgici del regime.
La Repubblica, insomma, non ha saputo (potuto? voluto?) espellere il virus fascista dal proprio corpo, e proprio come un virus il fascismo si è replicato con più varianti, tornando periodicamente a infettare la politica e la società italiana. Stanno qui e non altrove le ragioni per cui ancora oggi un dirigente di partito può definire goliardate gli inneggiamenti a Hitler o gli insulti a “negri” ed ebrei senza suscitare un unanime coro di sdegno e protesta. D’altronde, il fatto stesso che l’inchiesta sulla “lobby nera” di Fanpage, dopo il fisiologico clamore iniziale, sia già sul punto di scomparire dal dibattito pubblico non è che l’ennesima conferma della correttezza dell’analisi. E questa è la cosa più preoccupante. _______
1, https://www.laportadivetro.org/wp-content/uploads/2021/09/docs_mr.pdf
Posted on: 2021/10/07, by : admin
Posted on: 2021/10/07, by : admin