G7 e ruolo dello Stato nell’economia. Una soluzione per il caso Ilva?
di Mercedes Bresso|
|Tra i tanti risultati positivi del summit del G7 svoltosi in Cornovaglia con la prima partecipazione del presidente americano Joe Biden, c’è stata la decisione di analizzare le filiere produttive per i prodotti strategici e cercare di ricostruirle interamente nei paesi membri, evitando la dipendenza per molti segmenti delle produzioni da paesi potenzialmente avversari e comunque non facenti parte delle economie di mercato. Leggasi la Cina, ma non solo. Questa decisione è di grande rilevanza perché modifica radicalmente la convinzione, finora dominante nei nostri paesi, che ci si dovesse affidare solamente ai meccanismi del mercato e che il settore pubblico dovesse uscire al massimo possibile dal controllo delle aziende, anche quando queste producessero prodotti intermedi o finali essenziali al buon funzionamento dell’economia.
Emergenze e intervento pubblico
Emergenze e intervento pubblico
Tutti ricordiamo la liberalizzazione della produzione di energia e l’abbandono al mercato della siderurgia, della chimica di base, della farmaceutica, del trasporto aereo, della cantieristica, anche militare, ecc. ecc. Con il risultato che le produzioni di base sono spesso finite all’estero, nei paesi a basso costo del lavoro. A questo elenco aggiungerei anche la gestione degli impianti per il trattamento dei rifiuti, in particolare di quelli pericolosi e degli inceneritori.
La pandemia e la repentina chiusura delle frontiere, addirittura all’interno della stessa Unione Europea, ma ancora di più da parte di altri paesi, che hanno non solo bloccato l’esportazione di maschere, medicinali e vaccini, ma anche di moltissime materie intermedie essenziali alla maggior parte delle produzioni, dall’acciaio, agli intermedi per la farmaceutica o per la produzione di apparecchi elettronici, ha mostrato la debolezza dei meccanismi di mercato nelle situazioni di emergenza. E ci ha ricordato che fra le emergenze potrebbe anche esserci una guerra, militare o anche solo commerciale.
Ovviamente, non sarà semplice dare attuazione alla decisione presa in Cornovaglia, perché da troppo tempo stiamo andando nella direzione opposta, non solo privatizzando tutto, ma anche attraverso decisioni aziendali che spezzettano la produzione dei beni in decine di segmenti delocalizzati in altrettante aziende collocate in molti diversi paesi, seguendo solo la ricerca (ossessiva) di un minore costo del lavoro. Per fare solo un esempio: un pezzo di un’auto inglese può essere prodotto in un’azienda italiana, inviato a cromare in un’altra in Polonia, ritornare in Italia, essere assemblato con un altro pezzo proveniente da un terzo paese e, finalmente, essere inviato in UK, dove avverrà praticamente solo il montaggio finale dell’auto. È evidente che se una sola di queste fasi si blocca, sarà tutto il processo a bloccarsi.
Altrettanto vale per le materie prime: in Italia, in questo momento, non si trova legno, per cui sono ritardate tutte le attività che lo richiedono, anche in piccola quantità. Noi non ne produciamo che pochissimo perché non riusciamo a gestire il nostro patrimonio forestale. E lo stesso vale per la maggior parte dei prodotti elettronici, per i quali mancano i componenti di base.
La scelta dei settori strategici: priorità indifferibile
La pandemia e la repentina chiusura delle frontiere, addirittura all’interno della stessa Unione Europea, ma ancora di più da parte di altri paesi, che hanno non solo bloccato l’esportazione di maschere, medicinali e vaccini, ma anche di moltissime materie intermedie essenziali alla maggior parte delle produzioni, dall’acciaio, agli intermedi per la farmaceutica o per la produzione di apparecchi elettronici, ha mostrato la debolezza dei meccanismi di mercato nelle situazioni di emergenza. E ci ha ricordato che fra le emergenze potrebbe anche esserci una guerra, militare o anche solo commerciale.
Ovviamente, non sarà semplice dare attuazione alla decisione presa in Cornovaglia, perché da troppo tempo stiamo andando nella direzione opposta, non solo privatizzando tutto, ma anche attraverso decisioni aziendali che spezzettano la produzione dei beni in decine di segmenti delocalizzati in altrettante aziende collocate in molti diversi paesi, seguendo solo la ricerca (ossessiva) di un minore costo del lavoro. Per fare solo un esempio: un pezzo di un’auto inglese può essere prodotto in un’azienda italiana, inviato a cromare in un’altra in Polonia, ritornare in Italia, essere assemblato con un altro pezzo proveniente da un terzo paese e, finalmente, essere inviato in UK, dove avverrà praticamente solo il montaggio finale dell’auto. È evidente che se una sola di queste fasi si blocca, sarà tutto il processo a bloccarsi.
Altrettanto vale per le materie prime: in Italia, in questo momento, non si trova legno, per cui sono ritardate tutte le attività che lo richiedono, anche in piccola quantità. Noi non ne produciamo che pochissimo perché non riusciamo a gestire il nostro patrimonio forestale. E lo stesso vale per la maggior parte dei prodotti elettronici, per i quali mancano i componenti di base.
La scelta dei settori strategici: priorità indifferibile
Ricostruire le filiere produttive non sarà quindi semplice e richiederà molta attenzione, in particolare per quanto riguarda i flussi di materie prime e prodotti intermedi. Poi occorrerà decidere quali di questi sono strategici e devono quindi essere prodotti almeno in una certa parte all’interno dell’Ue (e occorrerà essere certi che i paesi che aderiscono non bloccheranno in caso di penuria gli approvvigionamenti per tutti) e come gestire gli accordi con USA e Regno Unito. Poi si dovrà compiere un esame analogo per i prodotti finiti, con particolare attenzione agli armamenti e ai beni essenziali.
Naturalmente tutto ciò può essere fatto anche con il settore privato, assicurandosi tuttavia che le attività strategiche non siano delocalizzate in tutto o in parte al di fuori dell’UE e degli altri paesi alleati. Questo è l’aspetto più delicato, perché ogni azienda privata ha il diritto di fare le proprie scelte sulla base delle convenienze del mercato. Come fare allora a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti?
Credo che vada totalmente ripensato il ruolo dello Stato in economia, poiché saremo sempre di più in concorrenza con paesi dove lo stato imprenditore, che utilizza i profitti per reinvestire aiutando le imprese a proprio piacimento, invece di aumentare i redditi della popolazione, è la realtà.
Per l’Europa ciò potrà significare una profonda revisione delle norme sulla concorrenza, almeno per i settori che saranno definiti strategici: per fare un esempio, si potrebbe decidere che in questo tipo di imprese il settore pubblico può investire acquistando una quota e che può detenere fino al 51% o comunque che possa subentrare acquistando le quote in vendita, per evitare che la maggioranza finisca all’estero. O introdurre delle golden share. Come si vede si tratta di cambiare radicalmente le norme sulla concorrenza, il che è tutt’altro che semplice in un’economia di mercato e che vuole restare tale. L’UE potrebbe anche creare un organismo apposito, incaricato di verificare la garanzia degli approvvigionamenti strategici e, al tempo stesso, il rispetto delle regole della concorrenza, magari aggiornate alle nuove esigenze.
Particolare è ancora, secondo me, il caso dell’Ilva e, in generale, della attività a forte potenziale inquinante: qui, almeno nella fase della trasformazione ambientale, dovrebbe essere il settore pubblico a fornire ai cittadini la garanzia che la ristrutturazione avvenga in modo veramente sostenibile. A seconda dei settori, sarebbe necessaria una partecipazione pubblica, almeno nella prima fase, o permanente, quando i rischi ambientali siano rilevanti. Un altro esempio sono gli inceneritori di rifiuti nocivi o urbani: qui la garanzia che le emissioni al camino siano sempre dentro le norme, non può che essere fornita da una gestione pubblica o a partecipazione pubblica, oltre che dalla disponibilità di accesso ai dati da parte dei cittadini.
Appare evidente che le poche parole con cui le decisioni del G7 sono state annunciate contengono una carica esplosiva per il funzionamento futuro delle economie di mercato, che dovranno confrontarsi non più con i regimi comunisti classici ma con stati-imprenditori aggressivi e potenti e dovranno rivedere in profondità non solo le proprie pratiche, ma anche i propri fondamenti teorici.
Posted on: 2021/06/21, by : admin
Naturalmente tutto ciò può essere fatto anche con il settore privato, assicurandosi tuttavia che le attività strategiche non siano delocalizzate in tutto o in parte al di fuori dell’UE e degli altri paesi alleati. Questo è l’aspetto più delicato, perché ogni azienda privata ha il diritto di fare le proprie scelte sulla base delle convenienze del mercato. Come fare allora a garantire la sicurezza degli approvvigionamenti?
Credo che vada totalmente ripensato il ruolo dello Stato in economia, poiché saremo sempre di più in concorrenza con paesi dove lo stato imprenditore, che utilizza i profitti per reinvestire aiutando le imprese a proprio piacimento, invece di aumentare i redditi della popolazione, è la realtà.
Per l’Europa ciò potrà significare una profonda revisione delle norme sulla concorrenza, almeno per i settori che saranno definiti strategici: per fare un esempio, si potrebbe decidere che in questo tipo di imprese il settore pubblico può investire acquistando una quota e che può detenere fino al 51% o comunque che possa subentrare acquistando le quote in vendita, per evitare che la maggioranza finisca all’estero. O introdurre delle golden share. Come si vede si tratta di cambiare radicalmente le norme sulla concorrenza, il che è tutt’altro che semplice in un’economia di mercato e che vuole restare tale. L’UE potrebbe anche creare un organismo apposito, incaricato di verificare la garanzia degli approvvigionamenti strategici e, al tempo stesso, il rispetto delle regole della concorrenza, magari aggiornate alle nuove esigenze.
Particolare è ancora, secondo me, il caso dell’Ilva e, in generale, della attività a forte potenziale inquinante: qui, almeno nella fase della trasformazione ambientale, dovrebbe essere il settore pubblico a fornire ai cittadini la garanzia che la ristrutturazione avvenga in modo veramente sostenibile. A seconda dei settori, sarebbe necessaria una partecipazione pubblica, almeno nella prima fase, o permanente, quando i rischi ambientali siano rilevanti. Un altro esempio sono gli inceneritori di rifiuti nocivi o urbani: qui la garanzia che le emissioni al camino siano sempre dentro le norme, non può che essere fornita da una gestione pubblica o a partecipazione pubblica, oltre che dalla disponibilità di accesso ai dati da parte dei cittadini.
Appare evidente che le poche parole con cui le decisioni del G7 sono state annunciate contengono una carica esplosiva per il funzionamento futuro delle economie di mercato, che dovranno confrontarsi non più con i regimi comunisti classici ma con stati-imprenditori aggressivi e potenti e dovranno rivedere in profondità non solo le proprie pratiche, ma anche i propri fondamenti teorici.
Posted on: 2021/06/21, by : admin