Gerusalemme, dietro i razzi e le pietre, il sangue e il dolore: cui prodest?

di Germana Tappero Merlo |

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Battaglia a Gerusalemme, nuova intifada, pietre e pallottole di gomma, palloncini infiammabili e razzi da Gaza, sirene di allerta per i rifugi dei civili israeliani da Ashkelon a Tel Aviv. 200 razzi palestinesi lanciati da Gaza verso il sud di Israele, un terzo dei quali caduto nella stessa Striscia, con inevitabili vittime (tra cui 3 bambini), e il 90% del resto intercettato dalla cupola difensiva ebraica Iron Dome. E poi la risposta dell’esercito israeliano con 130 obiettivi, facenti capo ad Hamas e Jihad Islamica, colpiti nella notte, 25 morti palestinesi e 100 feriti. È un flash di prima mattina di quanto è successo negli ultimi giorni e poi nelle ultime ore. E, al momento in cui scriviamo, anche dispiegamento di forze di fanteria israeliana, paracadutisti e la brigata Egoz, lungo il confine con Gaza e 8 battaglioni di riservisti della Polizia di frontiera in Giudea e Samaria o Cisgiordania e 5000 riservisti richiamati da tutto il Paese. L’allerta è grande, la paura è molta, molta di più, oltre lo sconforto e la rabbia, da entrambe le parti.

I toni dell’ennesima battaglia israelo-palestinese sono accesi, tinte forti per un puzzle dalle mille sfumature di una complessissima realtà che si vuole sempre ridurre, per semplicistico dualismo mentale ormai quasi patologico, a un bene contro un male, ad un noi contro loro. Perché si sa che quando la dissonanza cognitiva diventa intollerabile, ossia quando la realtà è troppo complessa o semplicemente dissimile da come vorremmo che fosse, ridurre il tutto ad uno scontro dicotomico, con buona dose di complottismo, fa sì che tutto sia più semplice. E invece, paradossalmente, lo complica nella sua soluzione. Puntare il dito in un’unica direzione è errato. Lo affermo per esperienza e sfinimento, con buona dosa di irritazione per impotenza. Incolpare a senso unico abbaglia e impedisce di comprendere i contorni di innumerevoli questioni che non trovano spazio normalmente nei media occidentali, come, fra le tante, le debolezze dei due governi.

Quello di un Netanyahu sfiduciato (con l’ennesimo sforzo di formarne uno dopo quattro elezioni in due anni) con i tentativi di dialogo ed addirittura coinvolgimento degli arabi israeliani, dopo averli osteggiati per anni, per cui una sorta di rivoluzione nel mondo della politica ebraica. Dalla reazione forte di queste ore potrebbe ottenere la spinta necessaria a rafforzare la sua posizione. Dall’altro lato, vi è un Abu Mazen che ha cancellato le elezioni, le prime dopo 15 anni, scatenando la rabbia del suo popolo, cavalcata alla grande da estremisti come Hamas e Jihad islamico che dominano in Gaza. Il primo, poi, ha rivendicato tutte le operazioni di queste ore, mentre il secondo conta 2 morti fra i capi della sua ala militare.

E poi l’incapacità della polizia israeliana, dimostrata in più occasioni nell’ultimo periodo, a gestire situazioni di folla, come l’incidente al monte Meron, con 45 vittime fra i pellegrini ultraortodossi, ma soprattutto la decisione dei suoi vertici in Gerusalemme di collocare barriere (poi rimosse per decisione dello stesso governo Netanyahu) alla spianata della mosche al-Aqsa, in pieno Ramadan, proibendo di fatto l’accesso alla folla che, peraltro, obbligata a marciare verso la spianata perché gli autobus dei pellegrini erano tenuti lontani, ha fatto sì che diventasse massa furiosa.

Incompetenza, errori di valutazione, debolezza politica sono un mix micidiale che ha acceso le micce di una tensione lunga mesi, fra pandemia, sfratti minacciati (e poi rinviati) da abitazioni contese fra proprietari palestinesi e coloni oltranzisti del quartiere Shimon HaTzadik (Sheik Jarrah) che ne rivendicano la proprietà, per cui la terra, come sempre, al centro di una guerra locale quotidiana che non trova armistizio, mai. Ma anche difficili equilibri di potere, addirittura internazionali, che nella questione delle elezioni palestinesi esprime tutte le colorazioni di quella contorta e spinosa situazione. In primo luogo la spiegazione ufficiale di Abu Mazen di annullare le elezioni perché Israele non avrebbe dato il permesso ai palestinesi della Gerusalemme Est, quella araba, di andare a votare, è la versione di comodo per la sua precaria posizione di anziano leader, moderato o, per i suoi detrattori, “incapace di gestire la questione Palestina dal punto di vista politico, diplomatico e, soprattutto, economico”.

Da qui la miccia del malcontento; perché, di fatto, l’al-Fatah di Abu Mazen non può contare su un supporto adeguato per allearsi alla pari con Hamas, sempre che i suoi leader lo vogliano, e superare una divisione fra le due differenti anime politiche del popolo palestinese lunga anni e che vede il primo controllare la Cisgiordania e il secondo Gaza. al-Fatah è inoltre debole per corruzione interna, di cui patisce la quotidianità la stessa popolazione palestinese di Cisgiordania che guarda, invece, con favore ad un aggancio con Hamas che, nella cultura della rivoluzione che pervade quel popolo, è “il vero partigiano, il salvatore dal dominio ebraico”. Da qui, la decisione di cancellare le elezioni per evitare una Cisgiordania in mano agli estremisti di Hamas. Lo pensa Abu Mazen, se lo auspica, ovviamente, Israele. E allora, che ci sia accordo fra i due?

Speculazioni a non finire anche su questo. Di certo nemmeno Giordania e l’Egitto stesso, già per esperienza, avrebbero esultato su una vittoria di una lista islamica pro-Hamas: un suo rinvigorimento su tutti i territori palestinesi sarebbe una minaccia troppo prossima ai loro equilibri e alla loro sicurezza interna, oltre che a quella del loro vicino e alleato, Israele. Non è difficile immaginare che anche la stessa amministrazione Biden, che non è certamente Trump, vero, purtuttavia non sarebbe così ben disposta di fronte alla vittoria di Hamas nei Territori e contro il moderato Abu Mazen. Così come, si ipotizza, perché non è mai chiara nelle sue posizioni, lo sarebbe anche l’Unione Europea.

C’è tanto, tantissimo, dietro le pietre, i razzi, le pallottole e le bombe di questi giorni. Non è solo e sempre guerra asimmetrica. Troppo facile. Perché questa è spezzone di una guerra dove, come sempre, l’opportunismo politico di entrambe le parti, nessuna esclusa, cavalca il disagio, le incomprensioni, le debolezze dell’altro, in un caleidoscopico mutare di situazioni e con, al centro, la paura, il terrore e il dolore delle rispettive popolazioni civili nella loro quotidianità di questa parte di Medio Oriente.




Posted on: 2021/05/11, by :