I muri, risposte “moderne” per governare sulla paura
di Germana Tappero Merlo|
|Si era visto con Donald Trump e il muro con il Messico. Ma anche Orbán con quelli fra la sua Ungheria e le masse che premevano dalla Serbia e dalla Croazia. Poi un’altra barriera, alta tre metri, fatta più di filo spinato che di cemento armato, con pattugliamento continuo di polizia, se non di gendarmeria in assetto militare, è stata predisposta fra Polonia e Bielorussia all’indomani del ritorno dei talebani in Afghanistan, in una mossa precauzionale decisamente preventiva che sa più di opportunismo politico interno che di visione di lungo periodo di politica internazionale.
Sono i muri e le barriere che si vanno ad aggiungere a quelli in Grecia e in Austria, mentre Lettonia e Lituania si stanno adeguando. Non da meno, dall’altra parte del mondo, la fiumana di haitiani che si stanno accalcando, in queste ore, lungo il confine con il Texas, dopo i disastri del terremoto di metà agosto, sono l’occasione per i “veri” patrioti americani di rilanciare, a gran voce, progetti di barriere anti-migrante. Perché non c’è posto per tutti; perché il migrante costa, pesa sui contribuenti e porta problemi, soprattutto criminalità. E il senso di minaccia, in democrazia, è un’arma potentissima per spingere le persone a votare chi promette di garantire sicurezza e le barriere di confine diventano la vetrina politica per impressionare gli elettori a breve termine. Non importava se il muro trumpiano con il Messico, una volta terminato, sarebbe costato 11 miliardi di $ (20 milioni a miglio)1 e molti, ma molti di più per mantenerlo, o per processare o rimpatriare chi era già riuscito a superarlo, insomma per detenere di fatto 40mila persone, impedendo loro di trovare una sistemazione negli Stati Uniti. Senza contare i morti. Ma, appunto, quelli non contano.
Rifugiati e identità, la doppiezza del Potere
Sono i muri e le barriere che si vanno ad aggiungere a quelli in Grecia e in Austria, mentre Lettonia e Lituania si stanno adeguando. Non da meno, dall’altra parte del mondo, la fiumana di haitiani che si stanno accalcando, in queste ore, lungo il confine con il Texas, dopo i disastri del terremoto di metà agosto, sono l’occasione per i “veri” patrioti americani di rilanciare, a gran voce, progetti di barriere anti-migrante. Perché non c’è posto per tutti; perché il migrante costa, pesa sui contribuenti e porta problemi, soprattutto criminalità. E il senso di minaccia, in democrazia, è un’arma potentissima per spingere le persone a votare chi promette di garantire sicurezza e le barriere di confine diventano la vetrina politica per impressionare gli elettori a breve termine. Non importava se il muro trumpiano con il Messico, una volta terminato, sarebbe costato 11 miliardi di $ (20 milioni a miglio)1 e molti, ma molti di più per mantenerlo, o per processare o rimpatriare chi era già riuscito a superarlo, insomma per detenere di fatto 40mila persone, impedendo loro di trovare una sistemazione negli Stati Uniti. Senza contare i morti. Ma, appunto, quelli non contano.
Rifugiati e identità, la doppiezza del Potere
Ormai è un automatico risultato di causa ed effetto: se nasce o si inasprisce una crisi, in qualsiasi regione del mondo, tutt’intorno si ergono muri. E ci si considera fortunati se la barriera è naturale, fatta di miglia e miglia di mare o di alte montagne: ci si può lagnare per il disagio della prima accoglienza ma, di fatto, gli ostacoli che la natura offre ci vengono incontro come alleati silenti.
L’obiettivo è semplice: contenere, al di fuori della tranquillità garantita dai propri confini, la massa di disperati che da quella crisi, guerra civile o regime, o anche disastro naturale, fugge in cerca, si badi bene, non di libertà ma di sopravvivenza. Perché essere un profugo non significa, e da parecchio, aggiudicarsi il diritto alla libertà e alla felicità; nemmeno se sei un rifugiato dalle peggiori guerre ora in atto. Si fugge con misere cose e ormai, e da parecchio, si inizia un lungo calvario: se va bene è solo burocratico, ma è sempre più raro, perché appunto la tribolazione è data innanzitutto dal rifiuto fisico che si esprime con muri di cemento alti parecchi metri oppure, non meno peggiori, con le quote di accoglienza che ciascun Paese si impone e fa rispettare con l’uso della forza, se il caso. E il numero di questi muri, dal 2000 al 2021, completati, avviati o anche solo annunciati è più che quintuplicato, da 16 a 90. E’ ormai una pratica, assimilata nella gestione della politica interna e internazionale. E non solleva più né indignazione né commenti e men che mai opposizione.
L’immigrazione clandestina è la più temuta, ma le giustificazioni addotte dai governi includono i traffici illegali e il terrorismo. Per contrastarli, si ricorre anche a elettrificazione della recinzione, fossati e trincee ai lati, a volte colmi di acqua, presidiati notte e giorno da soldati, motovedette ed elicotteri. Un costo enorme in termini di sicurezza che, appunto, non è accessibile a tutti i Paesi. Perché per creare un blocco perfetto, solido ed impenetrabile, sono necessari anni di lavoro, materiale, manovalanza e vigilanza continua. Infatti, sono poco i confini ‘seri’, quelli invalicabili, come quello fra Kuwait e Iraq, ad esempio, mentre per parecchi altri avere denaro sufficiente a trattare con guardie corrotte o trafficanti di uomini è l’unico lasciapassare valido e sicuro.
Barriere al servizio della… corruzione
L’obiettivo è semplice: contenere, al di fuori della tranquillità garantita dai propri confini, la massa di disperati che da quella crisi, guerra civile o regime, o anche disastro naturale, fugge in cerca, si badi bene, non di libertà ma di sopravvivenza. Perché essere un profugo non significa, e da parecchio, aggiudicarsi il diritto alla libertà e alla felicità; nemmeno se sei un rifugiato dalle peggiori guerre ora in atto. Si fugge con misere cose e ormai, e da parecchio, si inizia un lungo calvario: se va bene è solo burocratico, ma è sempre più raro, perché appunto la tribolazione è data innanzitutto dal rifiuto fisico che si esprime con muri di cemento alti parecchi metri oppure, non meno peggiori, con le quote di accoglienza che ciascun Paese si impone e fa rispettare con l’uso della forza, se il caso. E il numero di questi muri, dal 2000 al 2021, completati, avviati o anche solo annunciati è più che quintuplicato, da 16 a 90. E’ ormai una pratica, assimilata nella gestione della politica interna e internazionale. E non solleva più né indignazione né commenti e men che mai opposizione.
L’immigrazione clandestina è la più temuta, ma le giustificazioni addotte dai governi includono i traffici illegali e il terrorismo. Per contrastarli, si ricorre anche a elettrificazione della recinzione, fossati e trincee ai lati, a volte colmi di acqua, presidiati notte e giorno da soldati, motovedette ed elicotteri. Un costo enorme in termini di sicurezza che, appunto, non è accessibile a tutti i Paesi. Perché per creare un blocco perfetto, solido ed impenetrabile, sono necessari anni di lavoro, materiale, manovalanza e vigilanza continua. Infatti, sono poco i confini ‘seri’, quelli invalicabili, come quello fra Kuwait e Iraq, ad esempio, mentre per parecchi altri avere denaro sufficiente a trattare con guardie corrotte o trafficanti di uomini è l’unico lasciapassare valido e sicuro.
Barriere al servizio della… corruzione
Sta succedendo al confine fra Iran e Afghanistan, là dove il muro iraniano non copre gli oltre 500 km di confine e il muro, eretto in tutta fretta con l’inasprirsi della crisi umanitaria afghana, è comunque superabile, di notte, attraverso scale messe a disposizione da bande di criminali che speculano sulla fuga degli afghani. Oppure vi scavano passaggi sotterranei: e una volta entrati in Iran, inizia l’ignoto. E il Paese più prossimo, la Turchia, che già ospita 3,7 milioni di profughi siriani, è intervenuto per precauzione, erigendone un altro lungo i 64 km al confine con l’Iran, appunto, già da anni rotta dei migranti afghani verso l’Europa. Ma da gennaio 2021, i profughi afghani sono oltre 270mila, 300mila secondo fonti turche. Comunque sia, si sa che quest’altro muro sarà superabile anch’esso attraverso elargizione di denaro. Ciò a dimostrazione, comunque, del fatto che i muri non possono essere considerati efficaci nel prevenire la migrazione clandestina.
Ma nemmeno il terrorismo. Ne sono un esempio quello saudita-iracheno e quello israelo-egiziano, quest’ultimo per contenere il flusso di uomini, materiali e armi che dal centro Africa, e appunto attraverso il Sinai, pressoché terra di nessuno – o meglio, in gran parte in mano a milizie dell’ISIS – raggiunge i palestinesi di Gaza. In entrambi, vi sono stati attriti o comunque un deterioramento dei rapporti fra le comunità divise da muri e trincee d’acqua, laddove le violazioni vengono imputate all’ incapacità di controllo e alla mano leggera verso i migranti da parte dell’altro Stato. Peggio, poi, se al di là del muro vi sono campi di rifugiati, disperati in attesa di muoversi verso altre destinazioni: il permanere a lungo, mesi se non anni, in situazioni di disagio crea condizioni favorevoli per il terrorismo di stampo jihadista per reclutare i giovani alla lotta armata. Qualsiasi soluzione proposta, per quei ragazzi (e ultimamente anche ragazze), è decisamente meglio dell’insicurezza prolungata in un limbo di attesa infinita.
Eppure politiche economiche mirate sarebbero più efficaci dei muri nell’affrontare il commercio e i traffici illegali; così come una diplomazia e una lotta alla corruzione più attive e laboriose sarebbero risolutive nell’affrontare tanta di quell’instabilità che mina la sicurezza globale. Di fatto, invece, sta vincendo la cultura della fortezza, quella che fa erigere muri; quella alimentata dalla convinzione che i migranti siano un’arma di destabilizzazione di massa, per cui l’Occidente è vittima di un complotto che lo vorrebbe estinto a favore di razze, culture e civiltà diverse, a cui si aggiungono la paura dell’ignoto e quella trappola territoriale che fa corrispondere identità e nazionalità. Eppure, a guardare la storia, tanta parte dell’umanità ha la migrazione nel sangue e quindi, come afferma Parag Khanna nel suo sapiente e lungimirante ultimo saggio, Il movimento del mondo2, ciò dovrebbe ricordarci che è il movimento anziché il tribalismo ad essere il nostro istinto originario e che l’ibridazione razziale, come pure il cambiamento climatico, sono processi graduali che hanno superato ormai il punto di non ritorno.
Ma nemmeno il terrorismo. Ne sono un esempio quello saudita-iracheno e quello israelo-egiziano, quest’ultimo per contenere il flusso di uomini, materiali e armi che dal centro Africa, e appunto attraverso il Sinai, pressoché terra di nessuno – o meglio, in gran parte in mano a milizie dell’ISIS – raggiunge i palestinesi di Gaza. In entrambi, vi sono stati attriti o comunque un deterioramento dei rapporti fra le comunità divise da muri e trincee d’acqua, laddove le violazioni vengono imputate all’ incapacità di controllo e alla mano leggera verso i migranti da parte dell’altro Stato. Peggio, poi, se al di là del muro vi sono campi di rifugiati, disperati in attesa di muoversi verso altre destinazioni: il permanere a lungo, mesi se non anni, in situazioni di disagio crea condizioni favorevoli per il terrorismo di stampo jihadista per reclutare i giovani alla lotta armata. Qualsiasi soluzione proposta, per quei ragazzi (e ultimamente anche ragazze), è decisamente meglio dell’insicurezza prolungata in un limbo di attesa infinita.
Eppure politiche economiche mirate sarebbero più efficaci dei muri nell’affrontare il commercio e i traffici illegali; così come una diplomazia e una lotta alla corruzione più attive e laboriose sarebbero risolutive nell’affrontare tanta di quell’instabilità che mina la sicurezza globale. Di fatto, invece, sta vincendo la cultura della fortezza, quella che fa erigere muri; quella alimentata dalla convinzione che i migranti siano un’arma di destabilizzazione di massa, per cui l’Occidente è vittima di un complotto che lo vorrebbe estinto a favore di razze, culture e civiltà diverse, a cui si aggiungono la paura dell’ignoto e quella trappola territoriale che fa corrispondere identità e nazionalità. Eppure, a guardare la storia, tanta parte dell’umanità ha la migrazione nel sangue e quindi, come afferma Parag Khanna nel suo sapiente e lungimirante ultimo saggio, Il movimento del mondo2, ciò dovrebbe ricordarci che è il movimento anziché il tribalismo ad essere il nostro istinto originario e che l’ibridazione razziale, come pure il cambiamento climatico, sono processi graduali che hanno superato ormai il punto di non ritorno.
1https://www.npr.org/2020/01/19/797319968/-11-billion-and-counting-trumps-border-wall-would-be-the-world-s-most-costly?t=1631970088283
2P. Khanna, Il movimento del mondo. Le forze che ci stanno sradicando e plasmeranno il destino dell’umanità, Fazi editore, Roma 2021.
Posted on: 2021/09/19, by : admin
2P. Khanna, Il movimento del mondo. Le forze che ci stanno sradicando e plasmeranno il destino dell’umanità, Fazi editore, Roma 2021.
Posted on: 2021/09/19, by : admin