Il 25 Aprile visto dalla “Granda”: una festa insidiata
di Livio Berardo |
|Domani è il giorno della Liberazione: 76 anni anni fa, dopo 20 mesi di resistenza e di lotta feroce contro l’occupante nazista e il governo fascista della Repubblica sociale di Benito Mussolini, l’Italia ritornava nell’alveo dei Paesi democratici. Quarto appuntamento de La Porta di Vetro con un articolo di Livio Berardo, già presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Cuneo.
Per il secondo anno consecutivo celebreremo la festa della Liberazione con le restrizioni imposte dalla pandemia. Ci saranno omaggi delle autorità, dei rappresentanti dell’Anpi e delle altre associazioni resistenziali ai cippi e ai monumenti, messaggi commemorativi, ma niente comizi, cortei, fiaccolate. Insomma nessuna manifestazione di massa. Il 25 aprile è così colpito al cuore della sua essenza di festa popolare e celebrazione collettiva. Con razionale disciplina, attenti al bene e alla salute comune, non possiamo non accettare tutte le restrizioni. Ma dobbiamo essere consapevoli che ciò finisce per essere l’ennesima insidia tesa da una natura “matrigna” al ricordo della Resistenza.
Già esso deve scontare l’ineluttabile perdita di quasi tutti i protagonisti di quella stagione (per restare nella provincia Granda, solo poche settimane fa se ne è andata la staffetta che dal CLN regionale portò il 26 aprile a Cuneo l’ordine dell’insurrezione, Fernanda Serafini), il ricambio generazionale e l’oblio che il trascorrere del tempo trascina fatalmente con sé. Ma ancora più pesantemente ha inciso e incide la trasformazione sociale e politica del paese. Non esiste più nessuno dei partiti che promossero la lotta contro i nazifascisti ed elaborarono poi la Costituzione democratica. Sono viceversa in auge forze estranee ai valori dell’antifascismo o addirittura ostili. La facies del cuneese è cambiata profondamente, e non sempre in meglio.
Una provincia “bianca” solidamente antifascistaEra senz’altro la nostra una provincia moderata, incardinata sulla piccola proprietà contadina, con una forte presenza culturale della Chiesa e predominio politico democristiano. Ma erano città e paesi, i cui amministratori avevano ben presente il prezzo di sangue che il fascismo aveva fatto loro pagare dal 10 giugno 1940 alla liberazione: 15.500 morti su poco più di 600 mila abitanti. Fra di essi settemila alpini non più tornati dalla Russia, duemila partigiani, quasi mille civili vittime di rastrellamenti o rappresaglie nazifasciste. Emersero alcune grandi figure di sindaco.
A guidare Alba, prima per designazione del CLN, poi per elezione popolare e consiliare fu Teodoro Bubbio, nel 1922 uno dei due deputati del Partito popolare italiano (Ppi), che, contravvenendo alla disciplina di partito, non votarono la fiducia al primo governo Mussolini. Bubbio avviò la pratica per l’ottenimento della medaglia d’oro al valor militare.
A Saluzzo nel 1946 il primo atto del neoletto avv. Emilio Villa, già presidente del tribunale che aveva condannato a morte il feroce tenente della Rsi Pavàn, fu quello di offrire un posto in Giunta alla minoranza socialcomunista, per continuare la politica unitaria del CLN (la minoranza ringraziò, ma per rispetto verso i risultati delle votazioni declinò l’offerta, come altrove, per esempio a Genova, a parti invertite, fece la Dc).
A Cuneo l’ing. Mario Del Pozzo stava discutendo con il consiglio comunale la costruzione di un monumento alla Resistenza, quando (1952) giunse dalla Germania federale la notizia della scarcerazione di Albert Kesserling, comandante supremo delle forze tedesche in Italia, colui che aveva assicurato l’impunità ai suoi subalterni, qualunque atrocità fosse stata commessa nelle azioni di repressione e di rappresaglia.
Nella sua prima conferenza stampa il neo consulente militare del governo di Bonn si stupì che dalla penisola si fossero levate forti proteste per la sua liberazione. Vantava di aver salvato tante vite umane e opere d’arte che gli italiani avrebbero semmai dovuto erigergli un monumento. Incuranti del fatto che il primo ministro Alcide De Gasperi non solo non intendeva protestare contro l’accaduto, ma addirittura stava trattando con il suo omologo leader democristiano tedesco, il cancelliere Adenauer, la liberazione dei criminali nazisti detenuti in Italia, Del Pozzo e i Dc cuneesi, all’unanimità con i consiglieri di sinistra e con quelli liberali, decidevano di costruire in breve tempo un contromonumento al generale nazista, affidando a Piero Calamandrei la scelta delle parole.
Fu incisa la famosa epigrafe: «Lo avrai/ camerata Kesselring/ il monumento che pretendi da noi italiani/ ma con che pietra si costruirà/ a deciderlo tocca a noi…» che ancor oggi campeggia nella scalinata di accesso del municipio. Il successore di Del Pozzo, Tancredi Dotta Rosso (prematuramente scomparso nel 1976), non ebbe remore a gemellare il capoluogo con una città della Germania est, Fürstenberg, dove sorgeva il lager femminile di Ravensbrück. Fu così possibile iniziare i pellegrinaggi ai campi di concentramento, organizzati da Lidia Beccaria Rolfi, Nino Bonelli, più in generale dall’Aned, e collocare un sacrario alle deportate italiane, opera di un artista cuneese Berto Ravotti e due saluzzesi, Pietro Bolla e Araldo Cavallera.
Dal luglio del 1963 al maggio del ’65 quasi tutti i comuni furono toccati dalle manifestazioni per il 20° anniversario della liberazione, organizzate dall’Amministrazione provinciale. Apriva i battenti l’Istituto storico della Resistenza, creato, su richiesta dei comandanti partigiani, dalla provincia in consorzio con tutta una serie di comuni.
Dalle fila della Resistenza non uscirono solo sindaci democristiani: il repubblicano “Aldone” Quaranta a Entracque, il comunista Giuseppe Marinetti a Racconigi, l’indipendente (di sinistra) Arnaldo Rivera a Castiglione Falletto hanno lasciato un’impronta nella storia dei loro comuni. Quaranta condusse una lunga lotta contro i potentati idroelettrici per la difesa dell’ambiente in valle Gesso, Marinetti fermò una speculazione edilizia fino ad allora incontrollata, il maestro Rivera, già ispettore della 14° brigata Garibaldi, fu confermato alla guida del suo paese per 36 anni, trasformando radicalmente le condizioni di vita della popolazione con l’adesione all’acquedotto delle Langhe e la fondazione della Cantina sociale Terre del barolo.
Antifascismo militanteL’antifascismo dei democristiani (e dei liberali) cuneesi non si riduceva a discorsi o celebrazioni. Quando nell’estate del 1964 il deputato del Pci Giuseppe Biancani e l’ex segretario della Camera del lavoro di Bra Prunotto, entrambi ex partigiani garibaldini, identificarono a Stoccarda il boia di Boves Joachim Peiper, Provincia, comune di Boves e Istituto storico della resistenza formarono un comitato presieduto da Nuto Revelli per raccogliere le prove e cercar di suscitare nel tribunale distrettuale tedesco quell’attenzione e quel rigore, che in realtà mancheranno.
In occasione delle elezioni amministrative del 1956 il partito neofascista, il Msi, pensò fosse giunto il momento di presentare proprie liste e tenere comizi nella nostra provincia. A Cuneo il segretario Giorgio Almirante fu sommerso da una valanga di fischi da parte di una folla strabocchevole in cui era difficile distinguere il colore politico di chi protestava. Un altro esponente missino cercò di parlare a Bra. Un reparto della Celere, lo speciale corpo repressivo messo in piedi dal ministro Scelba, caricò i numerosi contestatori, poi arrestò comunisti, socialisti, ex partigiani. Il sindaco democristiano Rodolfo Gaia (un ex internato militare) e il giovane attivista Marco Fagnola, presenti alla manifestazione, si autodenunciarono, smascherando così il comportamento fazioso del questore o di chi dirigeva le forze di polizia.
Nell’estate del 1960 le proteste contro il congresso del Msi programmato in una città medaglia d’oro della Resistenza come Genova si diffusero da questa città a tutta l’Italia: invano il senatore del collegio di Alba Adolfo Sarti esortava i suoi compagni di partito a “non fare il gioco dei comunisti”, a convincersi che il pericolo per la democrazia non veniva dal Msi, bensì da sinistra. A Cuneo, a Saluzzo vi furono manifestazioni antifasciste con una forte presenza democristiana e liberale, mentre la miopia politica di Sarti lo avrebbe portato qualche decennio dopo a presentare una improvvida domanda di adesione a quella centrale di trame nere che era la loggia P2 di Licio Gelli.
Un allontanarsi progressivo dai valori della ResistenzaLe simpatie per l’organizzazione segreta di Gelli rimandano a una concezione della politica come mero strumento di potere, ad una ambizione protesa verso cariche sempre più elevate, fine a sé stante. È stata questa logica, a mio avviso, che ha portato nei partiti governativi molti gli arrivisti, più o meno giovani, a smarrire presto i valori della Resistenza e della Costituzione: emblematico quanto successe con il leader socialista Bettino Craxi che nel 1983, incaricato di formare il governo, aprì le consultazioni al Msi Giorgio Almirante, sdoganando di fatto la destra neofascista. Ma già in provincia i seguaci di Manlio Vineis e Paolo Farinetti, in lotta fratricida per conquista di un seggio alla Camera, erano arrivati a delegittimare reciprocamente il contributo dato alla Resistenza dal candidato concorrente. Quanto al Pci saranno i successivi, troppo numerosi cambi di sigla, a causare nei continui traslochi ideali smembramenti o perdite dell’archivio genetico, fino alla clamorosa gaffe legata alla nascita del Pd, nel cui statuto mancava ogni riferimento ai principi dell’antifascismo.
Tuttavia questa erosione di valori nella nostra provincia è stata più lenta che altrove. Nel 2004 il presidente della provincia Giovanni Quaglia otteneva dal capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi la medaglia d’oro al valor civile a memoria delle 15 mila vittime, elencate e identificate da una decennale ricerca dell’Istituto storico della Resistenza. La decorazione veniva appuntata sul gonfalone che reca gli stemmi di Cuneo, Alba, Saluzzo e Mondovì il 25 aprile di diciassette anni fa. Ancora le celebrazioni del 70° anniversario hanno visto una partecipazione larga e diffusa di quasi tutti i comuni.
Negli ultimi tre, quattro anni, quasi all’improvviso, profonde crepe si sono aperte nella memoria collettiva della nostra provincia. Qua e là sui muri sono apparsi simboli e scritte nazifasciste, sui social si sono consumate esternazioni grottesche di esponenti politici e persino di amministratori. Alcuni sindaci hanno deciso di disdettare l’adesione del proprio comune dall’Istituto storico della Resistenza. Le motivazioni sono per lo più di ordine economico e lasciano sempre l’amaro in bocca perché si tratta sempre di un contributo di poche centinaia di euro, ininfluenti sull’equilibrio dei bilancio.
Nella foto il alto: Il Monumento alla Resistenza a Cuneo, in Viale degli Angeli, opera dello scultura Umberto Mastroianni
Posted on: 2021/04/24, by : admin