Il dramma di Ardea: com’è comodo scaricare sulla Legge Basaglia

di Stefano Maria Cavalitto|

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È noto ai più l’episodio di cronaca recentemente occorso nella cittadina laziale di Ardea in cui hanno perso la vita quattro esseri umani. Al di là delle ricostruzioni puntuali dell’accaduto, il primo pensiero va, a scanso di equivoci, al dolore per la morte di due bambini, al dolore incommensurabile dei loro genitori, al dolore dei familiari dell’uomo che tentando di fermare l’aggressore è stato ucciso anch’egli. E al dolore per la morte dell’aggressore: anch’egli vittima di se stesso. Il dolore per la morte dei “colpevoli”, per la morte di Caino è comunque dolore, a mio avviso.

Non mi addentrerò inoltre più di tanto nelle questioni di clinica psicopatologica che stanno cercando di tracciare un possibile profilo di personalità dell’uomo che ha sparato per uccidere, tenendo tuttavia presente che pare si parli di un grave disturbo di personalità, probabilmente con tendenze persecutorie: così si è espresso il vicesindaco di Ardea, peraltro psicologo. Neanche da aggiungere che non è certo un etichettamento personologico che risolve la questione, non quest’ultima ormai passata alla cronaca nera, purtroppo, né le prossime analoghe.

L’eco di tale vicenda, come di altre simili o comunque associate dalla coscienza collettiva al fenomeno della follia, riaprono il dibattito su come avere a che fare proprio con la follia, su come affrontarla. Contrastarla? Contenerla? Curarla? Dibattito che emana dalla esistenziale ferita aperta dell’umana imperfezione, ferita che ci costringe ad affacciarci da un lato sulla porzione caotica ed irriducibile della vita e dall’altro lato verso il bisogno di non soccombere a tale caos, di prenderne atto e non subirlo soltanto. Cosa fare dunque per non soccombere al caos, qui rappresentato dall’azione violenta di un uomo, apparentemente insensata, almeno per noi, verso altri esseri umani?

La questione si inserisce, quasi sincronicamente, nel discorso aperto sulle pagine di diversi quotidiani in queste settimane sulle normative nazionali (ed internazionali) circa la salute mentale, ed alla lotta alla sofferenza che il disagio psichico grave comporta. Un nome su tutti torna riecheggiare nei discorsi: Franco Basaglia. Lo psichiatra che con la legge omonima ha messo fine all’istituto manicomiale come via trattamentale della sofferenza mentale (o di quella che veniva definita tale, anche per comodo: non è stato raro trovare recluse in manicomio persone sufficientemente sane, ma scomode per chi aveva il potere allora di decretarne l’internamento, mariti gelosi compresi..).

Viene allora richiesto da alcuni, in questo caso come in altri in passato, di ristabilire il sistema di contenzione istituzionale, cioè la reclusione in appositi istituti dei cosiddetti matti, in modo che non possano più nuocere ai sani. Al di là della mia voluta semplificazione dell’argomento, una tale richiesta, ammesso che possa essere legittima da un punto di vista etico, sarebbe comunque illusoria. Come dire che riaprendo i manicomi, saremo tutti al sicuro dalla follia altrui (e la nostra…?). Purtroppo non credo sia così. Andando oltre a logiche di convenienza circa i guadagni che ne potrebbero derivare per alcuni ad implementare sempre di più un trattamento di custodia e non di cura vera e propria, conviene fermarsi proprio sul concetto di cura.

Come si cura la follia? Domanda impossibile e senza risposta che va riformulata: come ci si prende cura della follia? In questa accezione forse possiamo provare ad accennare a qualche possibilità, più che a risposte vere e proprie. Sul finire dei miei studi universitari in Psicologia, ebbi la fortuna di essere allievo di Agostino Pirella, all’interno del corso di Epidemiologia psichiatrica. Pirella, già braccio destro di Basaglia a Gorizia e poi collaboratore della di lui moglie Franca Ongaro, diresse l’ospedale psichiatrico di Arezzo per lungo tempo (a proposito, proprio ad Arezzo, recentemente è stata dedicata una mostra a ricordo e riattualizzazione di tale esperienza). Ebbene, sotto la giuda di Pirella, oltre allo studio teorico mi è stata fondamentale l’esperienza sul campo avuta nei luoghi dove era possibile attualizzare la cura. Non (solo) gli ambulatori medicalizzati in cui si ricevono i farmaci, i centri di salute mentale o i reparti di psichiatria degli ospedali, ma i luoghi della cura sul territorio: gli appartamenti supportati, gli spazi sociali condivisi, le reti associative di supporto e di sensibilità alla sofferenza psichica, i centri diurni, le comunità residenziali. Dove sono finiti questi servizi?

A dire il vero da alcuni anni una nuova importante istituzione è comparsa sulla scena a sancire la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari: la Rems (Residenza per l’esecuzione della misure di sicurezza). Fermandoci però ai servizi per la popolazione che non ha ancora un reato in giudicato, come chi invece è ospite delle Rems, parliamo delle delle cosiddette “strutture intermedie”. Quelle strutture che fungono da tessuto connettivo tra i luoghi di ricovero ospedaliero e la popolazione, le famiglie, le persone che la malattia mentale ha reso sole. Ripetendo la domanda posta poc’anzi: dove sono? Quali politiche per il sostegno e lo sviluppo? (E la correzione di errori eventualmente). Ecco dove l’amministrazione sta fallendo (e non la legge 180/1978). Semplificando ulteriormente, la legge Basaglia ha da un lato chiuso i manicomi, istituendo i reparti psichiatrici negli ospedali generali (gli Spdc, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura), ma dall’altro ha dato l’impulso, come legge quadro, per l’attuazione di una serie di reti territoriali ed istituzionali purtroppo mai attivate o poco sostenute dalle istituzioni centrali e regionali, creando così un vuoto in cui la cura è lasciata ad iniziative più o meno disparate anche se spesso encomiabili e di alto valore clinico.

Rendendo funzionali quelle che abbiamo chiamato le strutture intermedie, di sicuro la follia non sparirebbe, ma sarebbe un modo in cui farsene carico, un modo con cui non lasciare che corroda le dinamiche familiari, pur senza “recluderla” in istituzioni chiuse, spesso esse stesse iatrogene. Un modo di curarsene: di prenderla in cura. Vedasi, per quel che riguarda il territorio piemontese, la querelle sulla regolamentazione delle comunità psichiatriche, viste da alcuni purtroppo ormai come luogo di “parcheggio” e custodia di chi non riesce a stare in famiglia e non luoghi di cura veri e propri con una presa in carico realmente clinica, sui tre versanti del modello bio-psico-sociale: cioè psicologica, biologica, relazionale e sociale. Neanche da dire che per far ciò occorre avere personale professionale altamente qualificato ed in questo senso valorizzarlo, anche economicamente. A proposito, la spesa annua per la psichiatria in Italia si aggira attorno al 3%. In altri paesi occidentali tra il 10% e il 15%. Sarei tentato di dire che in sintesi questo spiegherebbe già quasi tutto, ma non lo faccio. Andiamo perciò al cuore delle questioni.




Posted on: 2021/06/16, by :