Il momento di uscire dalla “capanna”

di Stefano Cavalitto |

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In pochi giorni gli eventi che ruotano attorno al tema della riapertura sociale, intesa come ripresa delle attività produttive, commerciali e di libera circolazione dei cittadini, hanno subito una brusca accelerazione o forse sarebbe meglio dire degli stop and go ripetuti, che il governo definisce come prudenza e necessità di chiarire anche i dettagli più piccoli delle modalità di ripresa delle attività che ci erano consuete fino a qualche mese addietro.

Clima di sospensione tra insofferenza e speranza

Se la resistenza ad uscire dal guscio, “l’effetto capanna” descritto nel precedente articolo1, inteso come l’incertezza che si trasforma in difficoltà a ritrovare il ritmo conosciuto prima delle vicende della pandemia, sembra coinvolgere molti, un ulteriore “clima di sospensione” di certo non aiuta il vissuto collettivo in questo senso. Va anche detto che il buon senso auspica una soluzione ponderata, ma adeguata, che una scelta dettata dalla spinta del momento o più ancora sulla scorta di interessi particolari. Ma questi sono aspetti di politica sociale che tralascio, per riportare l’attenzione sul piano emotivo, o meglio, psicologico, ed interrogarsi se il vissuto di “sospensione” possa entrare in risonanza da un lato con una insofferenza, che può poi a sua volta sfociare nella rabbia, e dall’altro con una perdita di fiducia. Intendo che per poter “aprire”, e di conseguenza aprirsi, occorre una dose fiduciaria minima che permetta la ripartenza. E non la reazione rabbiosa. Tale fiducia quindi non credo debba essere confusa con l’insofferenza della costrizione che genera reattività e quindi potenzialmente condotte poco responsabili ed inadeguate sul piano sanitario. In proposito, è doveroso ricordare che ci sono ancora circa un centinaio di contagi giornalieri in Piemonte e la mortalità da Coronavirus, seppur diminuita, non è a zero.

L’ideale simbolico del grembo materno

Riprendendo il discorso dell’attrazione fatale del nostro nido come luogo sicuro, come luogo in cui, più o meno illusoriamente, possiamo pensare che nulla ci venga chiesto, come ambito di sicurezza in cui cullarci, facciamo in questo caso ricorso all’idea di simbolico materno. Con simbolico materno, declinato in questo caso nel suo versante positivo, non intendiamo ovviamente nessuna figura in carne ed ossa, ma attiviamo in noi la dimensione simbolica del luogo rassicurante, protettivo, nutriente, intimo che effettivamente la casa può rappresentare. Possiamo parlare di materno positivo in quanto effettivamente viene vissuto come tale, rispetto ad un fuori meno rassicurante. Ebbene, se il fuori risulta ancora poco rassicurante o caotico, la dimensione simbolica del materno positivo si rafforza e ci trattiene ancora di più. Alcuni penseranno a questo punto: “Tanto positivo tale materno simbolico non è…” In effetti è anche un po’ così, anche la positività va dosata…

Estroversi fuori, introversi dentro

È luogo comune pensare e dirci che la contemporaneità sia definita come una società che vive sulla performance, sull’efficienza, sulla capacità di farsi strada verso i propri obiettivi, sull’essere adeguati a ciò che ci circonda. In effetti, pare proprio sia così. Chi di noi scriverebbe in un curriculum vitae di essere poco inclini ai rapporti sociali, al raggiungimento degli obiettivi “mondani” che ci siamo preposti, alla proattività, mentre, al contrario, si è attratti dalla solitudine, dalla distanza sociale e dai silenzi? Insomma, potremmo definire la nostra contemporaneità come incline a premiare l’estroversione. Caso ha voluto, invece, che per necessità sanitarie siamo stati tutti un po’ costretti a fare i conti invece con l’altra faccia della luna, cioè con il nostro lato introverso. E che farsene ora? Certo, introversione ed estroversione così descritte sono categorie approssimative e che uso a favore del discorso intrapreso, senza ricorrere ad un’analisi maggiormente rigorosa degli atteggiamenti in questione. Tuttavia un aiuto ci può arrivare dalla riflessione, diciamo, clinica.

L’isolamento degli Hikikomori

Spesso la psicopatologia è una finestra deformata ed amplificata su ciò che definiamo “normale”: ci fa vedere con gli occhi, ahinoi, della sofferenza psichica, alcuni aspetti che non riusciamo a vedere altrimenti, che forse non vogliamo vedere. Pensiamo ad esempio al caso dei cosiddetti Hikikomori. Chi sono costoro? Con un termine giapponese si intendono quelle persone che con gesto estremo rifiutano ogni contatto sociale, compreso spesso quello con i famigliari per chiudersi in una stanza e da lì, spesso solo in orari notturni, comunicare col mondo, con un mondo quasi sempre selezionato e di soggetti in una condizione simile, tramite il web, con un computer. Se ci pensiamo, con gesti simili (non uguali ovviamente) a quelli, ad esempio, del nostro smart working, in cui è assente il contatto umano diretto. Usando la suggestione citata poco prima, cosa ci “può dire” tale psicopatologia? Che il mondo contemporaneo per questi soggetti, ma forse non solo per loro, è troppo estroverso? O che tali soggetti, per essere curati, vanno resi semplicemente “adeguati” ai canoni sociali condivisi? Al di là delle classificazioni o peggio delle etichette diagnostiche, ciò che si intende come cura, non è certo la rieducazione funzionale di una disfunzione, ma piuttosto la comprensione profonda del significato del disagio che è e rimane assolutamente soggettivo, diverso per ogni singolo essere umano.

Il passaggio dalla Fase 1 alle Fasi 2, 2 bis…

Tornando al nostro tema e mitigando un po’ il discorso, portandolo fuori dagli estremi della patologia, possiamo dire che se il polo estroverso è sicuramente foriero di adattamento, capacità risolutive, confronto/sfida col mondo, il polo introverso può modulare il contatto con il nostro mondo affettivo, in tempi e modi diversi. Forse a porci maggiormente a confronto coi limiti, intesi soprattutto come confini, orizzonti su cui stagliare il nostro agire. D’altronde anche la tecnologia stessa così di grande aiuto in questo momento può mostrarci la sua duplicità: inclusiva da un lato, come possibilità di rimanere connessi, ma parimenti esclusiva dall’altro, in quanto escludente alcuni aspetti fondamentali dell’esperienza umana. Al di là dell’accessibilità effettiva da parte di tutti. Non tutti, per esempio, hanno supporti informatici adeguati o sono in grado di usarli. L’ultima riflessione arriva da un dato sensoriale. Il passaggio dalla fase uno alla fase due (e più ancora verso la due bis, la tre che speriamo verrà e cosi via…) è dato dalla diversa percezione del silenzio. Nei racconti di molti veniva e viene ancora oggi sottolineato il silenzio che “si sentiva” nelle città durante il periodo di lock-down. Silenzio spesso rotto dal lacerante suono della sirena di un’ambulanza. Tale silenzio sta lentamente ora lasciando spazio ai brusii dei motori della auto, al vociare che inizia a risentirsi salire dalla strade, dal suono/rumore delle città che lentamente iniziano a muoversi. Sarà proprio tale rumore a riportarci fuori dalla nostra capanna? Sarà tale rumore che ci dirà che possiamo unirci anche noi al fuori, in un movimento enantiodromico che ci porta di nuovo verso il caos? Caos, in questa accezione, è anche sinonimo di vitalità, di vita, quindi.



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