Il “ritorno” alla lotta sui mari

di Germana Tappero Merlo|

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Alfred Thayer Mahan (1840-1914) era un ammiraglio statunitense autore di una dottrina sul dominio del potere marittimo, il cui studio e applicazione sono stati la croce e la delizia di intere generazioni di militari, strateghi e politici. In pratica, verso la fine del XIX secolo, fra le sue numerose e rivoluzionarie teorie circa la politica militare e internazionale degli Stati Uniti d’allora, spiccava quella secondo cui “chi domina il mare controlla il mondo”, a cui avrebbero fatto il verso, pochi decenni dopo, i teorici del dominio dei cieli e quelli più recenti del cosmo, sino agli odierni sostenitori della supremazia dello spazio cibernetico su tutti gli altri ambienti di confronto fra potenze. Si sa che il valore di una dottrina militare è dato dal suo sopravvivere ai tempi e alle trasformazioni tecnologiche. E quella, a quanto pare, di Mahan di un controllo dominante dei mari, sia militare che commerciale, sta ritornando prepotentemente in auge, e lo dimostrano i fatti e le analisi più recenti.

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Le acque attorno all’Europa sono, infatti, molto burrascose, laddove l’accaparramento di risorse strategiche e addirittura il passaggio sottomarino di dati stanno agitando gli ambienti diplomatici, muovono forze navali e infiammano i rapporti fra le cancellerie europee, nordafricane e oltre. Insomma, ce n’è per tutti. Fra incidenti tra pescherecci e guardie costiere, a sud, quelli tra flotte di pescatori, a nord, le discordie infinite (e pericolose) sulle zone economiche esclusive (ZEE), sempre a sud, e tentativi di controllo addirittura dei fondali marini, tutt’intorno al mare nostrum e oltre, non c’è da annoiarsi. Senza contare anche i mari del Nord e l’Artico. E tutto ciò ruota attorno ad un unico obiettivo: il controllo mahaniano di acque considerate strategiche, da cui la supremazia sui rivali per il dominio nel mondo. Ma procediamo con ordine.

È nota e, al momento, pressoché sgonfiata la questione fra Francia e Regno Unito sull’accesso alle pescosissime acque attorno all’isola di Jersey, inglese di appartenenza ma più prossima alla costa francese della Normandia. Un accesso fino a ieri regolato da norme UE ma, con l’accordo sulla Brexit e il ritorno al suo controllo da parte di Londra, legittimo possessore, tutto si è complicato. In pratica, secondo i nuovi accordi, che necessitano di aggiustamenti, ma soprattutto di un lasso di tempo che, pare, non sia stato rispettato in questi giorni dagli inglesi, verrebbe tolto ai pescherecci francesi un giro di affari annuo di 650 milioni di euro.

Di fronte alle trasgressioni inglesi, è scattata la protesta francese: una sua flotta di pescherecci si è imposta a sbarramento di fronte al porto inglese di St. Helier a cui, per tutta risposta e da buona ex potenza marittima, Londra ha risposto con l’invio di due motovedette della Royal Navy. Non da meno, Macron ne ha inviate altrettante. Insomma, un braccio di ferro fra cancellerie, anche se ciò che più temevano gli abitanti di Jersey era il taglio dell’energia elettrica sull’intera isola, che dipende, proprio per vicinanza, dai francesi. Appunto, tutto pare essere rientrato dopo colloqui fra le parti e, almeno per ora, una pax marittima è stata raggiunta. Ma fino a quando?

La riconoscenza dei libici… con i pescatori di Mazara del Vallo

Non trovano invece pace le acque internazionali di fronte alla Libia, in un’annosa e continua contesa fra l’Italia e quel travagliato Paese. Non solo migranti e barconi che, con l’estate, potrebbero ripartire, ma la vecchia questione degli sconfinamenti (a detta dei libici) dei pescherecci di Mazara del Vallo in acque “contese” e relativa opposizione della guardia costiera libica, da cui l’ambigua definizione della Farnesina, circa di quella parte di Mediterraneo, come zona “ad alto rischio”. L’ambiguità, e nel contempo la dimostrazione di debolezza dell’Italia nel trattare la questione con le autorità libiche, sta nel fatto che se il diritto internazionale definisce la ZEE entro le 12 miglia dal proprio territorio, ma la Libia la rivendica oltre le 60 miglia, e lo Stato italiano, oltre a limitarsi di “suggerire” ai nostri pescatori di non addentrarsi, vi aggiunge il laconico giudizio del ministro Di Maio di acque proibite, praticamente Roma dà ragione a Tripoli e a Bengasi.

Costoro poi si arrogano il diritto di abbordare, distruggere attrezzature di navigazione sino a sequestrare uomini e pescherecci, trattenerli per lunghi mesi, o peggio, in alternativa, sparare ad altezza uomo, com’è accaduto in questi giorni a 30 miglia da Misurata contro due imbarcazioni siciliane, dopo un’ora e mezza di piratesco inseguimento. Un rischio che viene da tempo contrastato dalle unità della nostra Marina militare, impegnate a respingere gli abbordaggi libici, ma che pone i pescatori di Mazara del Vallo e il loro diritto all’accesso al fresco pescato al centro di un braccio di ferro diplomatico e geopolitico marittimo fra Italia e Libia mai chiaramente concluso. Perché le contraddizioni di questa vicenda, poi, stanno anche altrove.

L’azione è stata condotta dalla guardia costiera libica, la stessa che Mario Draghi, poche settimane fa, aveva elogiato per il contenimento del flusso di migranti e che l’Italia ha addestrato e dotato di mezzi, uno dei quali, ironia della sorte, è stato protagonista di quest’ultimo incidente. Si tratta, infatti, della Ubari-660 che, con la Fezzan-658, nel 2018, erano state donate dall’Italia come parte di un accordo fra il ministro Marco Minniti e alcune milizie, che rispondevano all’allora governo di al-Sarraj, per respingere i migranti e rafforzare, di fatto, anche i confini europei. Una difesa armata, quindi, esercitata dalle autorità militari libiche, sia di Tripoli, sia di Bengasi, anche per la nostra sicurezza da orde di “invasori” illegali e che, per difendere il pescato di una ZEE arbitrariamente allargata da loro stessi, usano anche contro chi le ha sostenute nei mezzi e nell’addestramento. È un’altra incongruenza dei tormentati rapporti fra Tripoli, Bengasi e Roma.

La nuova rivalità marinara tra Erdogan e Macron

Ma la ZEE libica non è l’unica al centro di contese nel mare nostrum. Egitto, Grecia, Cipro, da un lato, e Turchia e nuovamente Libia, dall’altro, si stanno scontrando da mesi. Per ora solo diplomaticamente, ma con il rischio di escalation militare, proprio per la definizione delle rispettive ZEE nel Mediterraneo, in cui è in gioco il diritto di esplorazione e sfruttamento di petrolio e gas, così come l’uso di basi navali (la libica Misurata per la Turchia, anche per lo stazionamento di Forze Speciali, con appoggio finanziario dell’onnipresente Qatar).

Tensioni che avevano portato già la scorsa estate al dispiegamento di forze militari ostili, in particolare turche e greche, in una pura dimostrazione muscolare, con un exploit anche della Francia che aveva inviato proprie unità impiegate in esercitazioni navali congiunte proprio con forze di Grecia e Cipro. Un chiaro messaggio dissuasivo alla Turchia circa il suo piano di allargamento dal Mediterraneo orientale a quello centrale, che aveva procurato uno scontro in sede UE con la Germania, più a favore dell’accordo fra Ankara e Tripoli. Insomma, movimenti navali continui che obbligano a mediazioni diplomatiche che si scontrano con un gioco di alleanze a geometria variabile a più livelli, anche all’interno della UE, con al centro, sempre e, sembra banale ricordarlo, le risorse strategiche, anche alimentari, e i flussi di migranti.

I dati del business mondiale corrono sui fondali del Mediterraneo

Ma il dominio dei mari del nuovo millennio va decisamente oltre, sino a toccare i fondali del Mediterraneo, perché è là che i dati, nuova grande risorsa strategica, si muovono, ossia nella grande infrastruttura dei cavi sottomarini che rappresentano il sistema nervoso centrale delle telecomunicazioni globali: 97% del traffico dati per un valore di 10 miliardi di dollari in transazioni finanziarie giornaliere passa, infatti, dagli 1,2 milioni di chilometri di cavi collocati oggi nei fondali marini del pianeta.

Il loro passaggio, ancoraggio e aggancio alla terraferma, decidono, al pari dei gasdotti ed oleodotti, la geopolitica e la geoeconomia mondiali, definiscono accordi e scatenano dispute fra potenze, tra le quali, manco a dirlo, Stati Uniti e Cina. È in questo contesto che i fondali del Mediterraneo sono fonte di interesse e parte della nuova via della seta1, da cui preoccupazioni e contrasti. Ecco che allora aveva ragione Mahan, perché fra guerre per il pesce, difesa da migranti, dominio delle fonti di idrocarburi e per il passaggio di dati, solcare e dominare i mari e gli oceani ritornano in auge, come vuole la più classica strategia per il potere, proprio ora nell’ipertecnologico XXI secolo. _______